torpore mentale, di standby sociale, una sorta di difesa? Difficile dirlo. Anna mi ha raccontato molto, dettagli compresi, ma tramutare le informazioni in parole non è assolutamente facile.
     Come da programma, esito della TAC alla mano, il 13 gennaio 2011 Anna tornò ad Orbassano, al cospetto del team di Berruti, il quale, udite udite, la onorò della propria presenza. Là, stavolta, si consumò il dramma! L’esito della diagnosi ancora non lo conosceva, furono loro, dopo varie peripezie con vari PC che non riuscivano a leggere il CD, a comunicarglielo: furono belle notizie! Il male primario si era ridotto a nove centimetri di diametro, da tredici che era. Le lesioni secondarie sul fegato, le cosiddette metastasi, si erano ulteriormente rimpiccolite e diminuite di quantità. Invece no! Per loro erano solo notizie, informazioni da inserire in un dossier. Dal lato umano, mi raccontò Anna in lacrime, fu devastante. L’atteggiamento fu quello del tipo, queste le loro parole, “sì, ci sono dei risvolti positivi, ma dove vuole andare signora … non si faccia illusioni, da questo male non si guarisce, lei sarà una lungo vivente, sopravvivrà se sarà fortunata; alla fine dei cicli potrà sperare di avere una ulteriore riduzione della malattia con l’uso del farmaco che le abbiamo prescritto (il mitotane, n.d.r.), ma stiamo parlando di casi in percentuali insignificanti. Nella maggioranza dei casi la malattia sarà stabile, ferma, fino a che, potrebbe accadere, che si risvegli e non ci sarebbe più nulla da fare. Il fegato poi è messo ancora molto male e non può essere curato. Il suo cancro può essere solo rimosso chirurgicamente ed al momento attuale non è operabile e non sappiamo dirle se mai lo sarà.”
     Mentre Anna mi raccontava queste cose io mi accorgevo che aveva il cuore in gola. E sì, piangeva, ma mi disse che sentiva che le faceva bene parlarne con me, perché sembrava come alleggerirsi di questo peso mentre mi raccontava di quel terribile pomeriggio. La cosa più devastante, mi sottolineò, è che lei con difficoltà riusciva a fare delle domande, in quanto non la lasciavano parlare, e quando ci riusciva, sostanzialmente, non otteneva delle risposte. Non riusciva a sedare i propri dubbi, sebbene sia più facile rispondere con delle pessime informazioni senza la “scocciatura” di dover rispondere tentando di non ferire il paziente, senza dargli delle vere o false speranze. Ad ogni modo, le loro affermazioni venivano espresse con sufficienza, con fastidio, “che scocciatura doverti rispondere”. “Ci sono scappati persino degli sbuffi!” Mi disse. “È vero, erano stanchi, l’appuntamento con loro era per le 15:00, ma hanno avuto una emergenza e ci siamo riuniti alle 16:30, ma non è giustificabile. E dopo di noi

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