Fu come entrare in un sogno. Un sogno carico di angoscia e di stupore. Eravamo assolutamente soli. Nemmeno un visitatore, nemmeno l’ombra di un turista si aggirava in quel luogo. Treblinka era abbandonata, come un relitto inabissato nell’oceano del tempo. L’unico essere umano presente era il guardiano, che senza dire una parola ci staccò i tre biglietti dell’ingresso. C’erano anche dei libri e dei foglietti illustrativi. Acquistai per pochi sloty (è la valuta ufficiale della Polonia n.d.r.) una copia di “Revolt in Treblinka”, di Samuel Willenberg, uno dei pochi sopravvissuti alla disperata rivolta scoppiata nel campo di sterminio nella primavera del 1943. Avanzammo lungo un sentiero sterrato che s’inoltrava nel bosco, nel silenzio più profondo e irreale. Fu un cammino breve e sconvolgente, che non dimenticherò mai. Si udiva solo lo scalpiccìo dei nostri passi. Ogni tanto ci guardavamo attoniti, eravamo incapaci di parlare. E all’improvviso il bosco si diradò. Apparve uno strano spettacolo: una banchina di cemento fiancheggiata da un tratto di binario, sulla destra, e un vasto campo, brullo e costellato di macigni di pietra, sul lato sinistro. Quell’ampia radura era completamente circondata dalla foresta, e oltre le cime degli alberi non si vedeva altro che il cielo, come nell’Infinito di Leopardi.
     Ecco, quella era Treblinka: erba, pietre e silenzio. In nessun modo ci eravamo preparati a quell’incontro. Non potevamo capire nulla di ciò che stavamo vedendo. Ci aggirammo come inebetiti tra quelle pietre. Non sapevamo che i nostri passi stavano ripercorrendo gli stessi brevi cammini per cui erano passati, tra l’estate del ’42 e l’autunno del ’43, più di ottocentomila esseri umani prelevati dal Ghetto di Varsavia e da altri luoghi della Polonia, della Bielorussia e della Lituania, per essere immediatamente assassinati con i gas o con dei colpi alla nuca. Quel pezzo di binario mi restò impresso sopra ogni altra cosa. Si allontanava dalla banchina piegando con una lieve curva verso occidente, e poi spariva nel bosco. Non ebbi il coraggio di scattare una sola foto. Non ci pensai nemmeno. Nel mezzo del campo mi ricordai i versetti del Salmo 22 che recitano: «Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla, su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore del suo nome». Li avevo imparati in ebraico dal Rabbino capo di Milano, Giuseppe Laras. E in ebraico li recitai per tre volte, nel silenzio della mente. Mi sentii pacificato. Lasciammo il campo e ci rimettemmo in viaggio. A Varsavia studiai la storia di Treblinka e osservai a lungo la cartina del campo, ricostruita con un disegno meticoloso nel libro di Willenberg. Poi andai nell’area del Ghetto a visitare il monumento di Umschlagplatz, e allora finalmente mi resi conto di tutto.

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