dei suoi amici italiani. Sì, aveva conosciuto dei soldati italiani, era stato con loro per un breve periodo in un campo di prigionìa, e ci teneva a dire che erano tutti molto simpatici. «Mi insegnavano le parolacce più brutte della vostra bella lingua! E me le ricordo bene ancora». «Per esempio?», gli chiesi. E lui, con una pronuncia italiana impeccabile: «Vaff…!», e giù una bestemmia bergamasca che qui non oso nemmeno accennare. Rimasi di stucco. Lui cominciò a sorseggiare della vodka, che io rifiutai con la scusa dei bruciori di stomaco, ma c’era una domanda che a tutti i costi gli dovevo rivolgere. «E gli ebrei?». A quel punto lui smise di ridere. La sua vena di narratore all’improvviso si spense. Mi rivolse uno sguardo smarrito. Io forse non avrei dovuto, ma ebbi l’impulso di chiedergli: «Voi polacchi sapevate, vero? Sapevate quello che stava accadendo?». Seguì un lungo silenzio. Poi lui mi fece un cenno col capo, per dirmi di sì. Loro sapevano. E come potevano non sapere? «Senti», mi disse, «venendo qui da Varsavia siete passati da Malkinia Gorna?». «Sì», gli risposi, «me la ricordo bene: c’è un passaggio a livello, c’è una stazione ferroviaria». «Bravo! E lo sai cosa c’è lì vicino?». Restai muto. «Lì una volta la linea ferroviaria si divideva in due tronconi. A nord-est si andava, e ancora si va, verso Bialystok: è la linea che collega Varsavia con Mosca. Verso sud-est, invece, si andava a Treblinka. Era una diramazione brevissima, solo pochi chilometri, con un piccolo ponte di legno che passava sul fiume Bug. Adesso quel troncone non c’è più, è stato smantellato alla fine della guerra». Mi sentii correre un brivido nella schiena. Finalmente accettai un bicchierino di vodka.
     Il giorno dopo si doveva tornare a Varsavia. C’era un sole splendido e nemmeno una nuvola. L’aria si era completamente fermata. Guardando il cielo, sembrava di stare all’interno di una boccia di cristallo. Quando arrivammo a Malkinia fermai la macchina. Dissi a Maria e a sua madre Jadwiga che viaggiava con noi: «Perdonatemi, so che avete fretta di tornare a casa, ma io vorrei tanto vedere Treblinka». Sorrisero entrambe con dolcezza, senza dire una parola. Dopo pochi minuti ci trovammo davanti al famoso ponte di legno: era ancora lì, intatto, talmente angusto alle due imboccature che la mia auto (una vecchia Fiat Marea) quasi stentò a passarvi. Su quello strettissimo ponte erano passati, a migliaia, i treni della morte. La strada era deserta. Poco dopo incontrammo la scritta “Treblinka” su un piccolo cartello sbiadito. Mi aspettavo di scorgere un villaggio, invece vidi solo poche vecchie casette di campagna sparpagliate un po’ a casaccio lungo la via, e nemmeno un’anima viva di contorno. Arrivammo a un bivio. A destra la via si inoltrava in un bosco: era lì che dovevamo andare.

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