delusione del Ruggeri nel constatare che, dal consiglio, a lui era stato preferito come presidente Giovanni Colleoni, altro poeta che andava per la maggiore in quel periodo, tant’ è che egli scrisse a proposito della Fenice nel “Caécc de Siserà”: “go facc fena de sguater per ciapà pò a ché scié quater” (ho fatto persino da sguattero per prendere anche qui questi quattro). Le dimissioni non furono ritirate e nuovo presidente fu dichiarato proprio il Colleoni. L’Accademia fu chiusa nel 1890, ma ospitò artisti celebri, quali G. B. Rubini, ed ebbe soci onorari come Rossini, Bellini, Domenico Donzelli ed altri, e furono anche messi in scena alcuni dei componimenti del Ruggeri; fra questi riscosse parecchio successo nel 1843 l’opera “Oh de la mula”.
     Pubblicò altri scritti, tra i quali ricordiamo le “Rime Bortoliniane del Rugger da Stabell”, raccolte in numerosi volumi, ed altri sonetti perlopiù dedicati a personaggi noti o amici, quali il pittore Francesco Coghetti, il burattinaio Battaglia ed i componenti della famiglia Vertova-Camozzi, proprietari del castello di Costa di Mezzate.
     I primi fascicoli delle “Rime Bortoliniane” furono date alle stampe nel 1832: il titolo dato alla raccolta sembra apparentemente improvvisato e casuale, in realtà gli studiosi ci confermano che egli, modesto e svagato com’era, le aveva create più per suo diletto che per esser raccontate ai suoi concittadini. Ecco perché un titolo così “personale”. Si tratta comunque del componimento meglio riuscito del poeta, quello che ce lo rappresenta come allegro “cantore di rustica favella”, abile narratore e riuscito poeta-burattinaio. Ne scrisse ben 15 fascicoli, l’ultimo datato 1842, poi improvvisamente interruppe anche la scrittura di quest’opera e non ci è dato sapere il perché. Le “Bortoliniane” si chiudono quindi con il XV capitolo dedicato ai fratelli Donadoni di Alzano, grandi benefattori del poeta.
     La stella del poeta, però, si stava piano piano appannando e il Ruggeri tirava a campare “con qualche soldo” guadagnato con il suo lavoro di ragioniere. Alle “Rime” fecero seguito qualche sonetto, qualche augurio per nozze e nel 1946 un poemetto in lingua intitolato “La macca”.
     I fatti storici dell’epoca fecero uscire allo scoperto la sua vena patriottica; era il 1848 e la città era infiammata dalle numerose rivolte contro gli austriaci. Quale occasione migliore per dimostrare di essere ancora il poeta popolare dei bergamaschi? Egli pensò bene di raccontare gli avvenimenti dell’epoca in un volume che ebbe un discreto successo di pubblico, ma indispettì non poco gli Austriaci quando questi ultimi fecero ritorno a Bergamo, soprattutto il sonetto “Viva Pio IV”, dedicato dal poeta al Papa, e il famoso canto a 48 sestine “La Rivoluzione di Bergamo nell’anno 1848”. Fu l’inizio del suo declino; travolto da

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