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CRISI ECONOMICA: NON SOLO I RAMI SECCHI
                                              di Graziano Paolo Vavassori - Direttore Responsabile

     Personalmente non ho parlato moltissimo della crisi economica del 2009, differentemente dai miei colleghi più illustri. Ci ritorno questo mese, tuttavia, come buon auspicio per il 2010. Sono assolutamente certo di non aver mai perso il senso terreno di quanto sia accaduto al mondo economico e, tanto più, a quello lavorativo, non fosse altro per tutto quello che leggo ogni giorno; nonostante ciò, il mese scorso un fatto accadutomi mi ha sorpreso, per quanto pensassi di aver già visto tutto quanto sulla crisi.
     Mi sono semplicemente recato a Milano, presso un grande negozio storico specializzato in macchine fotografiche, vecchio tipo e digitali, sempre particolarmente fornito di prodotti professionali. Per un appassionato di fotografia come me non c’è posto migliore, accogliente, efficiente e fornito di questo.
     Giunto di fronte alla porta d’ingresso un cartello campeggiava sulla vetrata: “per cause di forza maggiore l’attività è stata chiusa definitivamente”. Ho chiesto alla gente che usciva se sapeva dirmi qualcosa e poi ho fatto qualche domanda ai dipendenti che ancora erano lì a lavorare: sostanzialmente il negozio è aperto solo per il ritiro dei prodotti già acquistati o per quelli consegnati per una eventuale assistenza. Il resto non è vendibile.
     Che cosa può mai essere accaduto ad un negozio che ha sempre lavorato alla grande? Qualcosa tipo un fallimento, immagino. Non sono un esperto, ma se il magazzino non è svendibile… non ci sono molte ipotesi.
     Ho sempre pensato che questa crisi alla fine avrebbe tagliato i rami secchi, ovvero quelle attività poco redditizie o quelle mal gestite, ma, a quanto pare, non è proprio così. Il mio rammarico, tuttavia, è rivolto ai commessi del negozio, che non sono come quelle ragazzine che incontri in certi luoghi e che, pur non essendo titolari, ti trattano con sufficienza. Queste stupide viziate lavoricchiano per raccogliere due soldi da spendere in discoteca al sabato sera e per andare in vacanza con le amiche ad agosto, sempre che non li spendano in pasticche, e non venitemi a dire che magari quei soldi servono per la famiglia, non sarebbero così scemette, sarebbero delle ragazzine mentalmente molto più cresciute. Queste, invece, non hanno la più vaga idea del valore del lavoro; pensano “che dopo di quel posto ne trovano un altro, perché si sentono brave, al di sopra di tutto, soprattutto degli adulti, quegli antiquati adulti che non sanno come ci si diverte davvero”, certo, ora che sono giovani e carine, ora che possono essere pagate una miseria, perché a loro va bene così ed anche al titolare del negozio giova. Prima o poi, in ogni caso, arriverà il momento che, non pretendano che la loro intelligenza le porti a capire, si renderanno tuttavia conto che è necessario un lavoro fisso e sicuro, nonché ben retribuito, ma sarà troppo tardi se non avranno costruito qualcosa da giovani.
     Loro, invece, i commessi del negozio appena chiuso, sono persone di una certa età, hanno lavorato lì da decenni, forse è stato il primo ed unico lavoro che hanno svolto in tutta la loro vita. Ora, sono sicuramente molto preparati nel loro mestiere, ma chi prende un commesso di quaranta, cinquanta o sessant’anni? Io ho pensato a loro spesso da quel giorno, impotente, così come penso agli esuberi della Tenaris, come esempio per tutti gli altri. Questa è la crisi, qui c’è la crisi, non nelle sale di Montecitorio, non nella televisione, dove un certo Corona si permette di dire che si vergogna di essere italiano. Sono io, maledizione, che mi vergogno di essere un italiano… e mi vergogno di essere pure un “essere umano” se questo mi rende simile a lui. Il mio augurio per lui da qui all’eternità è lo stesso scritto da un tizio su un biglietto rosso posato per terra nel luogo in cui, a Napoli, è stato rubato un albero di Natale sul quale la gente aveva attaccato i propri biglietti di auguri: “Vi auguro”, recita, “di divenire sterili, cosicché scimuniti come voi non si possano riprodurre”.
     C’è crisi, non ne siamo ancora usciti, e vi garantisco che quando sarà finita non tornerà tutto come prima, perché il mondo economico viaggiava sovra producendo, quindi non ci sarà lavoro per tutti in ogni caso, non come prima per lo meno. Di fronte a tutto questo stride un dato economico riferito ai giochi di Stato: per il 2009 si stima un incasso di nove miliardi di euro, tanto quanto una finanziaria, con un incremento, per esempio nel Superenalotto, del 44,2% rispetto all’anno prima. Il fatto è che è soprattutto la gente povera che gioca, convinta di poter cambiare la propria vita con la schedina vincente. Stride, ancor più, la pubblicità statale che invita a giocare con moderazione: “da che pulpito!”

 

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