India centro-settentrionale, Stato del Madhya Pradesh. Una mattina di settembre del 1935…
Mentre in Europa si addensano le nubi tragiche, che di lì a poco avrebbero scatenato le tempeste della Guerra civile spagnola e della Seconda guerra mondiale, due giovani studiosi, che già da alcuni anni hanno lasciato il Vecchio Continente s’imbarcano in un viaggio avventuroso alla volta di una località semisconosciuta chiamata Khajuraho (una parola hindi che vuol dire “il luogo dove crescono le palme da dattero”). Hanno sentito dire dal loro amico indiano, il grande poeta e mistico bengalese Rabindranath Tagore (Premio Nobel per la letteratura nel 1913), che laggiù, in quel luogo imprevedibile e misterioso, scopriranno qualcosa che mai si sarebbero sognati di vedere nella loro vita. Qualcosa di incredibile e di unico al mondo: i templi millenari del dio Shiva e della dea Kali. I templi della pornografia sacra.
I due giovani si chiamavano Alain Daniélou e Raymond Burnier. Alain, intellettuale e musicista, era un francese; nato a Neuilly-sur-Seine nel 1907 da madre cattolica e padre anticlericale, era fuggito dal “natio borgo selvaggio” scatenandosi in una serie di viaggi esaltanti in giro per il mondo, dal Medio Oriente all’Indonesia, dalla Cina al Giappone, pungolato da una sete inesauribile di conoscenza. Sicuramente doveva avere assorbito le sue idee più dal papà mangiapreti che dalla mamma bigotta: la morale cattolica dell’epoca gli ispirava una vera e propria repulsione. Nella sessuofobia inculcata dal clero vedeva soltanto ipocrisia e repressione crudele degli istinti naturali. Era divenuto ben presto amico degli intellettuali e degli artisti più ribelli e famosi del suo tempo, da Romain Rolland ad André Gide, e un giorno aveva conosciuto un sensibilissimo fotografo svizzero un po’ più giovane di lui: era Raymond. I due si erano innamorati, formando così una delle più celebri e disinibite coppie omosessuali del Novecento, e naturalmente avevano deciso di partire insieme per un nuovo lungo viaggio. Meta obbligata: l’Oriente.
Eccoli dunque nel mare di foreste del Madhya Pradesh. Ed eccoli finalmente a Khajuraho. Ma cosa si nascondeva esattamente in quell’angolo sperduto dell’India? Mille anni prima, quell’intera regione era dominata dalla dinastia rajput dei Chandella. Nel giro di un secolo, tra il 950 e il 1050 d. C., quei sovrani avevano fatto erigere a Khajuraho una serie impressionante di templi nello stile architettonico Nagara: enormi cupole di pietra slanciatissime, di forma ovoidale, sorrette da possenti basi quadrangolari e interamente fasciate di sculture in altorilievo. Quando Alain e Raymond si avvicinarono a quei templi, per un po’ non riuscirono a credere in ciò che i loro occhi vedevano: una schiera stupefacente di statue, che in modo assolutamente realistico, in grandezza e proporzioni naturali, nelle morbide forme e nei caldi colori della pietra arenaria, rappresentavano in tutte le varianti possibili il tema del gioco erotico e dell’unione sessuale.
I due amici s’innamorarono letteralmente di quei templi e delle loro ninfe celesti, le bellissime apsaras dai seni generosi e dai corpi floridi e sinuosi, nudi o seminudi, agghindati di monili e ornamenti eccitanti. Si sentirono attratti in modo irresistibile da quella profusione incredibile di acrobazie erotiche degne di illustrare, in ogni dettaglio, le istruzioni del Kâma Sutra e di andarne anche oltre, fino agli estremi limiti della trasgressione e della fantasia. Raymond si consacrò da quel momento a fotografarli, a farne risaltare i contorni, le profondità e i contrasti attraverso le lenti delle sue formidabili Leica, mentre Alain si dedicava con passione allo studio di tutte le fonti storiche, religiose e letterarie che fossero in grado di spiegare la genesi e il significato di quell’incredibile connubio di pornografia e sacralità, religione ed erotismo. In breve: i due amici furono i primi occidentali a scoprire quell’immenso patrimonio di arte e di cultura, che gli stessi indiani avevano ormai dimenticato da tempo.
A quali conclusioni giunse Alain Daniélou con i suoi studi sui templi di Khajuraho? Su quale supporto di idee e di credenze poteva essersi sviluppata quella forma di arte così estrema, che non aveva paragoni in nessun’altra parte del mondo? Prima di rispondere direttamente a questa domanda, dobbiamo fare una breve e necessaria premessa. Si tratta del fatto che non sempre la religione, nella storia umana, ha condannato il piacere sessuale. Al contrario, vi fu un tempo, molte migliaia di anni fa, prima cioè dell’avvento delle grandi religioni storiche e dei monoteismi abramitici, in cui l’umanità, evidentemente più vicina al primordiale stato di natura, aveva visto nel sesso l’espressione più alta della sacralità e nell’erotismo il modo più diretto per favorire il ricongiungimento dell’essere umano con il divino. Questa è dunque la premessa del discorso. Il punto di arrivo invece è un altro ed è cronologicamente molto più vicino a noi, alla nostra epoca storica: è il sesto secolo dopo Cristo.
Fu allora che in India cominciarono a riemergere quelle antichissime concezioni e confluirono nella cosiddetta religione dei Tantra. Ma cosa dicono i Tantra esattamente? Dicono che la vera potenza attiva che governa il cosmo è la shakti, cioè il principio femminile insito nel dio creatore e distruttore dell’universo, Shiva. Nell’immaginazione mitologica induista questa potenza di Shiva, questa divina shakti, si distacca dal dio stesso per assumere le forme della dea Kali. Kali è dunque la shakti di Shiva personalizzata ed è lei, come divina femmina primordiale, che rianima incessantemente il corpo e la volontà di Shiva, manifestando tutta la propria virtù nel mistero dell’attrazione sessuale, che risveglia la potenza generativa del dio. Il cardine rituale di questa tradizione viene perciò ad essere il maithuna, ossia il coito, che assurge così a una funzione cosmica e metafisica: è quello che lo stesso Alain Daniélou poi definì, in un suo famoso libro, “l’erotismo divinizzato”.
All’epoca in cui i due amici divulgarono con passione la loro scoperta, simili idee ed entusiasmi non potevano non suscitare scandalo. Le culture dominanti in tutto il mondo erano ancora pervase di puritanesimo e di sessuofobia (pensiamo solo alla persecuzione degli omosessuali sotto i regimi fascisti). Oggi, ancora il mondo, nonostante la libertà dei costumi in Occidente e l’invasione planetaria della web-pornografia, stenta ad abbracciare una visione realmente serena del sesso. Ecco allora perché da Khajuraho può giungerci un messaggio importante: nell’unione sessuale si esprime il connubio delle potenze divine che generano e sostengono il cosmo e la vita. La nostra volgare pornografia odierna è solo degradazione, oscena parodia di quella tensione verso il sacro e l’assoluto che mille anni fa trovò fantastica espressione nell’arte erotica di Khajuraho.

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