l’opportunità. Del resto, già il gruppo Audi-Volkswagen ha dimostrato di essere lontano dallo stile italico di depotenziare produzioni e marchi italiani a spese dell'italico contribuente. Sarebbe forse il caso di sdoganare questa finta storia della “italianità” e di ovvietà assortite e concludere come oggi sia più appagante essere stranieri e seri piuttosto che “nominali” italiani ingabbiati nelle logiche commerciali e corporative, facendosi scudo delle falle del sistema socio politico economico nostrano.
     C’è però il rovescio della medaglia, che non deve far pensare unicamente ad un’imprenditoria italiana facilona e speculatrice, anche perché una semplificazione del genere suonerebbe offensiva per quella sana parte della medio e piccola impresa, la quale lotta strenuamente per garantire la sopravvivenza del sistema. Una delle tante verità poggia sul fatto che le condizioni economiche attuali non inducono probabilmente nessun imprenditore ad investire in un paese schiavo di corruzione, malcostume, politiche fiscali da pogrom sovietico, burocrazia ipertrofica e vampirismo politico. Inoltre, il sistema industriale italiano è un concentrato dei vizi del paese, affossato dalle clientele incrociate e sempre più prigioniero delle banche che decidono se, come e quando intervenire per sostenere l’impresa. Gli imprenditori veri in Italia devono poter sperare di essere aiutati dagli istituti di credito e dagli organismi associativi, oppure, molto più semplicemente, decidono di andarsene all'estero come hanno fatto e continuano a fare i cervelli di casa nostra o i tanti giovani che stentano a farsi largo o a valorizzare sé stessi in un mercato del lavoro statico e atrofizzato.
     Nella realtà, buona parte dei liberi imprenditori sono più che altro diventati, per scelta o necessità, degli operatori finanziari, i quali, invece di investire nelle proprie aziende, nella ricerca, nell'innovazione, preferiscono investire in titoli finanziari, svilendo il prioritario perseguimento della finalità aziendale, cioè crescita sociale, mantenimento occupazionale e realtà radicata sul territorio.
     Nonostante la spirale critica della crisi mondiale, il gruppo tedesco Volkswagen è riuscito a produrre utili da record e nel giro di due anni è pronto a prendere il posto della Toyota quale maggior produttore di auto al mondo, contrariamente all’italianissimo gruppo Fiat, il quale, invece, non è riuscito ad adattarsi alla realtà contingente (in merito c’è un interessante approfondimento, a cura del nostro direttore, in “Saloni e Motori” n.d.r.). La verità sta, come sempre, nel mezzo: da una parte c’è il lassismo e l’inerzia della classe politica associati a mancanza di stimoli economici interni, a pressione fiscale alle stelle e ad un mercato del lavoro ancora troppo sindacalizzato, dall’altra persiste la

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