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BARCELLONA: IL SEGRETO MUSICALE DI SANT CUGAT
                                              di Massimo Jevolella

     Chi pensa a Barcellona immagina subito la travolgente movida sul lungomare, la mitica Rambla, le meraviglie architettoniche di Gaudì, ma basta uscire dalla città e percorrere una manciata di chilometri per scoprire una realtà assai meno nota e assolutamente degna di un film di mistero e avventura alla Indiana Jones. L’antica Via Augusta, che dal centro cittadino si snoda in perfetto rettilineo verso ovest, ci porta fino all’imbocco della Carretera de Vallvidrera (la C-16) e per questa comoda strada, superata la breve catena collinare di Collserola, si arriva in meno di mezz’ora a Sant Cugat del Vallés. È qui che si svolge la nostra storia. Quasi incredibile, ma vera.
     Tutto comincia in un giorno d’estate del 1944. Mentre nel mondo echeggia il concerto infernale delle bombe d’aereo e dei cannoni, un professore tedesco di mezza età, Marius Schneider, si aggira assorto nella mistica pace del millenario monastero benedettino, che sorge nel centro del grosso borgo catalano. In silenzio varca la soglia del grandioso chiostro e ne rimane abbagliato. Osserva le creature reali e fantastiche scolpite nei capitelli: pavoni, uccelli canterini, centauri, tori, draghi e leoni, aquile e sirene. Immerge lo spirito in quel perfetto quadrato di pietra, sfiorando con le mani il bordo del pozzo posto al centro del giardino. Passano le ore, si avvicina la sera, ma l’uomo esita ad andarsene. Intuisce, ormai, che tra quelle colonne deve nascondersi un segreto che forse nessuno è mai riuscito a svelare.
     Marius Schneider non è un dilettante visionario e non si trova a Sant Cugat per caso. Nato nel 1903 ad Hagenau, in Alsazia, ha seguito per dieci anni severi studi di filologia musicale a Strasburgo, Parigi e Berlino, prima di dedicarsi anima e corpo a una lunga serie di ricerche nel campo dell’etnomusicologia. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale è partito per il fronte, ha combattuto, fino a quando il destino non gli ha consentito di trasferirsi a Barcellona per dirigere l’Istituto ispanico di musicologia. È uno storico, uno scienziato e le sue lunghe ricerche lo hanno condotto fin qui, in questo chiostro incantato. Perché?
     L’ombra del crepuscolo invade già il cielo, quando a un tratto Schneider ricorda una frase di Gesù, riferita da Luca nel capitolo 19 del suo Vangelo: “Io vi dico che se questi taceranno, grideranno le pietre”. Ma possono le pietre gridare? E se ciò fosse vero, in che modo sarebbe possibile udire la loro voce? L’erudizione, da sola, non ha mai trasformato nessun uomo in un genio, ma quando un uomo di genio può attingere al bagaglio di un’immensa erudizione, allora possono accadere i miracoli. Schneider ricorda, in quel momento, che in due trattati indiani del XIII secolo veniva istituita una precisa corrispondenza tra animali e note musicali. Si trattava non già di attribuzioni arbitrarie, ma di nozioni attinte a una scienza tradizionale dalle origini lontane, che sicuramente superavano i confini dell’India. Dunque, potevano in qualche modo valere anche per l’arte cristiana dell’Europa medievale?
     La scintilla s’era accesa. Adesso era necessario esaminare i capitelli del chiostro con molta cura. Nell’ordine inferiore del colonnato, 72 colonne si affacciavano verso la luce del giardino e 72 verso la penombra del porticato. Il ritmo spaziale e numerico del chiostro si poteva riferire con estrema chiarezza ai cicli del tempo e delle stagioni, così come all’alternarsi dei giorni e delle notti. In queste 72 doppie colonne, cadenzate su ogni lato del quadrato in tre gruppi di sei, le rappresentazioni di animali erano in tutto 42. E i loro valori musicali cominciavano già a suggerire una chiara struttura melodica: il “fa” del leone solare e trionfante e il “mi” del toro sacrificale notturno e soccombente; il “la” dell’uccello canterino e il “re” del pavone che esprime l’equilibrio delle forze naturali; il “do” dell’aquila e il “fa” del gallo, animale solare per eccellenza; il “fa” del leone che diminuisce a “mi” quando il fiero animale viene domato e si accascia stanco sul far della sera. Schneider non ebbe più dubbi su quelle corrispondenze. Ma come interpretare le numerose lacune dell’esitante melodia?
     La soluzione dell’enigma si trovava lì, tra le mura del convento: era l’unica copia integra sopravvissuta di un manoscritto del XIII secolo, il “Liber consuetudinum”, che conteneva il testo musicale dell’inno dedicata a Cacufane, il santo martire catalano nel cui nome era stato fondato il monastero di Sant Cugat. Schneider esaminò l’inno e non tardò ad accorgersi che la struttura melodica dell’ultima strofa (“Ut pia tecum, Cucufas beate”) concordava perfettamente con la sequenza musicale dei capitelli. “I capitelli privi di figure animali”, scrisse poi nel saggio “Pietre che cantano”, “corrispondono esattamente al numero e al posto delle note da inserire”. Ma perché mancavano quelle sculture? “Perché”, egli spiegò, “essendo ogni animale congiunto a una determinata ora, la sua raffigurazione plastica doveva mancare ogniqualvolta il simbolo musicale richiesto dalla melodia era in contrasto con l’ordinamento delle ore relativo a questo animale”.
     L’enigma era risolto. Dopo secoli di impenetrabile silenzio, così, le pietre di Sant Cugat tornavano a cantare il loro mistico inno di lode. L’architettura svelava il suo segreto sonoro: il colonnato inferiore del chiostro si poteva leggere come un pentagramma chiaro. “Il destino di colui che è privo di timore reverenziale”, scrisse poi Schneider nel suo affascinante libro (edito in Italia da Guanda alcuni decenni fa), “consiste nel fatto che il sacro parla al suo cuore. Per lo stesso motivo l’imperscrutabile non diventa percettibile per colui che è insensibile, non lo colpisce con la sordità né lo priva della vista, ma passa innanzi a lui silenzioso e senza splendore”.

 

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