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"...prevenire, prendere il tumore per tempo, prima che faccia grandi danni,
vuole dire rendere la malattia assolutamente più curabile."

                                           di Cristina Mascheroni - Fotografia G.P.Vavassori

     La dottoressa Cristina Teragni lavora a Pavia, al day hospital oncologico dell’ospedale Fondazione Salvatore Maugeri. Minuta e dall’aspetto delicato, nasconde in sé una grinta di ferro che le consente di dirigere, come un valoroso generale, le truppe di malati, parenti ed affini, infermiere ed ausiliari che ogni giorno affollano questo reparto. L’abbiamo incontrata un luminoso sabato mattina e, dopo aver ultimato il giro di controllo dei malati in reparto, con un sorriso ci ha accolti per questa intervista nel suo studio.
     Toltasi il camice di medico, la dottoressa Teragni è diventata Cristina Teragni, un medico appassionato del proprio lavoro, il quale non esita a raccontarci come si combattono oggi le neoplasie maligne.
     Grazie dottoressa per averci ricevuti. Innanzitutto conosciamoci meglio, ci parli di lei e del suo percorso accademico.
     “Mi sono laureata in Medicina e Chirurgia nel 2000 e ho due specializzazioni, la prima in Medicina del Lavoro e la seconda in Oncologia Medica. Il mio tirocinio di laurea l’ho effettuato in FSM (Fondazione Salvatore Maugeri, n.d.r.), pertanto è stato naturale continuare qui il mio percorso medico.”
     Perché ha scelto di diventare oncologo?
     “È stata una casualità. Dopo essermi laureata, la mia aspirazione era quella di fare un lavoro più legato alla libera professione che all’attività clinica. Effettuando il tirocinio per la specializzazione in Medicina del Lavoro, sono entrata in contatto con il mondo della Medicina Generale, dove ho conosciuto il dottor Poggi (anch’esso medico di FSM oggi), che è stato poi il mio tutor durante il tirocinio. Poggi aveva già all’epoca una forte esperienza in campo oncologico e si era ‘spostato’ in Medicina Generale per seguire particolari pazienti epatopatici. Per vari motivi legati alla Fondazione, era stato poi di nuovo trasferito in Oncologia e io l’ho seguito. Lì, ho conosciuto anche il professor Bernardo. Quando è arrivato il momento di scegliere fra Medicina del Lavoro ed Oncologia ho capito che mi interessava di più quest’ultimo campo; in seguito ho avuto la possibilità di conseguire la specializzazione quindi… sono rimasta. Oggi sono ben 11 anni che lavoro alla Maugeri e ne sono ben contenta.”
     Dottoressa, facciamo una panoramica sul tema. Quanti sono oggi i malati di cancro in Italia? Sono in aumento o assistiamo ad una diminuzione rispetto agli anni precedenti?
     “I dati che le vado ad illustrare sono quelli pubblicati sul sito di AIRTUM (Associazione Italiana Registro dei Tumori) e dall’AIRC (Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro). Ogni anno in Italia ci sono 250.000 nuovi casi di tumore, ma l’incidenza dei vari tipi di neoplasie sta cambiando rispetto al passato. Alcuni stanno diminuendo, altri stanno modificando la loro incidenza. Per esempio, in entrambi i sessi sono in diminuzione i tumori dello stomaco, i mielomi e le leucemie, mentre c’è un aumento del tumore della tiroide, del melanoma e dei linfomi di Hodgkin. In particolare, i tumori legati al fumo stanno cambiando: in passato il tumore del polmone e di tutte le vie aeree superiori colpiva prevalentemente soggetti maschili, oggi c’è un inversione di tendenza e sono più colpite le donne rispetto agli uomini.”
     “Le diagnosi di tumore sono in aumento anche perché viene fatta più prevenzione, le diagnostiche sono molto più precise che in passato, quindi, vengono accertati molti più casi, ma la maggior parte in fase decisamente iniziale, quindi curabile. Abbiamo più casi di tumore alla prostata negli uomini e tumore della mammella nelle donne, per esempio, proprio perché la prevenzione sta funzionando bene.”
     Lei ha menzionato AIRC, il loro slogan è “il cancro sta diventando una malattia sempre più curabile”. Secondo lei è davvero così?
     “Certamente, fra l’altro AIRC è riuscita proprio a sintetizzare questo concetto in maniera esemplare: prevenire, quindi prendere il tumore per tempo, prima che faccia grandi danni, vuole dire rendere la malattia assolutamente più curabile. Penso ad esempio al tumore della cervice uterina o della mammella, con lo screening e la diagnosi precoce si riescono a trovare neoplasie davvero piccole che vengono operate e si risolvono definitivamente. È più dibattuto il tema del tumore maschile per eccellenza, quello della prostata: la decisione di fare o non fare prevenzione agli over 60 è sempre molto discussa in quanto, spesso, vengono trovati tumori molto ridotti, che non hanno mai dato fastidio e che non incideranno sulla sopravvivenza del paziente. Però, siamo talmente bombardati da queste campagne di sensibilizzazione e di screening di massa che alla fine, quando raggiungiamo una certa età, il nostro medico di base ci prescrive anche questi controlli. Tutto ciò è un bene, così possiamo trovare situazioni che, se non risolte, potrebbero anche diventare problemi più seri.”
     Mi consenta una digressione. Sul tema della prevenzione sono assolutamente d’accordo, è utile e ci può salvare davvero la vita. Il problema è che, spesso, ci rivolgiamo al nostro medico di base, chiedendo cosa fare per poter effettuare una prevenzione corretta (non si può certo pensare di fare una “TAC total body” ogni anno per vedere se c’è qualcosa che non va), ma quest’ultimo non sa che pesci pigliare… “In effetti è così, non è semplice ‘fare prevenzione’ anche se qualcosa sta cambiando. In Italia molte regioni promuovono campagne per screening di massa, come per esempio la ricerca del sangue occulto nelle feci per la prevenzione del tumore del colon o il pap test per il tumore della cervice uterina: è una cosa utilissima, sia per il paziente che si sottopone ai controlli e riesce a prevenire futuri problemi, sia per la ricerca medica, in quanto l’adesione di massa allo screening consente di ottenere un gran numero di osservazioni su una determinata patologia. D’altro canto, purtroppo, uno cerca di prenotare la visita di controllo con l’impegnativa, ma i tempi di attesa del SSN sono lunghissimi, a volte anche di un anno o più, quindi è costretto a ricorrere alle visite private con aggravio di costi.”
     “Dal mio punto di vista per fare una buona prevenzione è importante l’educazione del paziente all’ascolto del proprio corpo: per esempio, la donna si deve abituare fin da giovanissima a fare l’auto-palpazione del seno per scoprire immediatamente se c’è qualcosa che non va. Non abusare del fumo e dei superalcolici, tenere un comportamento sessuale corretto, seguire una dieta alimentare corretta, ricca di frutta e vegetali, sono tutte buone abitudini che possiamo osservare per tenere lontano non solo le malattie di tipo oncologico, ma anche malattie cardiovascolari, diabete e colesterolo.”
     Il day hospital oncologico è un luogo particolarmente frequentato da pazienti, ma anche dai tanti, forse troppi, familiari che li accompagnano. Quanto influiscono queste persone, sia in senso positivo quanto in senso negativo, sulla vostra quotidianità?
     “Innanzitutto, il paziente che accede al day hospital è una persona che sta ‘abbastanza’ bene, non ha al momento gravi impedimenti che possano limitare la propria autonomia, altrimenti sarebbe un paziente che andrebbe curato in regime di ricovero con altre problematiche annesse. Al day hospital ci troviamo davanti a persone che apparentemente stanno bene, ma hanno ricevuto una diagnosi di tumore, pertanto devono fare i conti con due situazioni quasi in conflitto fra di loro; a questo aggiungiamo che sono qui a fare delle terapie, spesso piuttosto pesanti, che danno effetti collaterali che li condizionano nella vita di tutti i giorni. Queste persone, il più delle volte, sono accompagnate da un familiare. È importante, per noi medici, parlare innanzitutto con il paziente che è il primo referente per la malattia, cercando di capire che tipo di persona abbiamo davanti: con una persona giovane, attiva e collaborativa, puoi rapportarti in un certo modo; con un paziente più anziano, che ti può sembrare più fragile, ti rapporti in modo diverso. I parenti spesso sono quelli che vanno a volte tranquillizzati a volte anche spronati a reagire alla malattia.”
     “L’accompagnatore è comunque una figura molto importante, in gergo vengono chiamati i ‘caregivers’: sono quelle persone con le quali si può parlare, magari in forma più distaccata, della malattia, della prognosi e delle possibilità di cura. Certo, a volte possono essere un po’ invadenti con le loro domande assillanti… anche perché la malattia va affrontata con i suoi tempi e i miglioramenti si misurano di volta in volta, noi medici non abbiamo sempre tutte le risposte che loro ci richiedono.”
     Lavorare al day hospital è come essere in trincea… Con quale spirito lei affronta ogni giorno il proprio lavoro?
     “Cerco sempre di partire il più possibile positiva. A volte ci sono situazioni che sembrano disperate, invece ci rendiamo conto che il paziente sta bene, tollera bene la terapia… A volte, purtroppo, data la malattia, ci sono situazioni che hanno un decorso più infausto. Questo fatto mi rattrista ogni volta, perché io penso sempre che davanti a me ho una persona, da considerare nella sua globalità, non una malattia. A volte è talmente tanta l’ansia dei parenti, l’angoscia che li attanaglia perché la malattia ha colpito un loro caro, che non si riesce a definire il giusto confine fra il somministrare la cura o lasciare che la malattia faccia il suo decorso naturalmente. Penso per esempio a persone molto anziane con una diagnosi di cancro dove forse, se non viene fatta la chemio con tutto il suo corollario di effetti collaterali, la qualità della vita residua può essere decisamente migliore. Altre volte ci sono malattie talmente aggressive che ti senti impotente di fronte a loro. Ti trovi davanti pazienti ai quali, se solo tu potessi, vorresti somministrare la ‘bomba atomica’ per guarirli… ma i tuoi sforzi sono vani, la malattia prende il sopravvento e noi ci dobbiamo ritirare… il tumore, è vero, è sempre più curabile, ma non è sempre così e noi lo dobbiamo tenere presente…”
     Chemioterapia, la cura del cancro che solo a nominarla fa paura. Perché secondo lei?
     “Beh, di certo i film ci hanno influenzato! L’immagine che ci viene proposta dai media è del malato che fa la chemio, pallido ed emanciato, con un foulard in testa e che gira in carrozzella… quindi una persona che riceve una diagnosi di cancro si terrorizza. Fortunatamente, non tutti i malati sono così, molti reagiscono benissimo alle cure! Certo, i farmaci che vengono somministrati sono pesanti, per assurdo alcuni dei farmaci più potenti sono anche ‘potenzialmente cancerogeni’. La chemio fa paura perché non è uno zuccherino, seguire queste terapie non è certo una passeggiata, ma molto dipende anche dalla sensibilità individuale di ogni malato: c’è chi la tollera bene, altri no.”
     “Alcuni di questi composti, quali per esempio adriamicina o cisplatino, danno effettivamente delle tossicità importanti, ma, fortunatamente, i nuovi farmaci che stanno uscendo dai laboratori di ricerca non avranno più queste tossicità così elevate, anche se non sono del tutto privi di effetti collaterali. Purtroppo la chemioterapia va fatta, per ogni malattia c’è il proprio protocollo di somministrazione, quello che statisticamente ha dato i migliori risultati in termini di sopravvivenza o di tempi di ricaduta della malattia. In molte patologie, per esempio le neoplasie del colon, viene somministrata anche post intervento e le statistiche di sopravvivenza a cinque anni sono notevolmente aumentate.”
     Cosa significa “sopravvivenza a cinque anni”?
     “Ovviamente stiamo parlando di dati statistici, non di aspettative di sopravvivenza alla malattia. Si utilizza questa finestra temporale in quanto proprio nei primi cinque anni si hanno le più alte possibilità di recidiva, di ricadute della malattia. Successivamente, possiamo avere dei casi che recidivino a distanza anche di 15-20 anni, ma, come diciamo noi medici, queste ricadute non alterano la prognosi del paziente, nel senso che non modificano la sua sopravvivenza. Comunque, stando alle statistiche di AIRTUM, in Italia siamo a un buon livello di cure oncologiche, in linea con il resto dell’Europa, anche se risulta comunque un divario il Nord ed il sud d’Italia, dove le cure sono più scarse.”
     Con la creazione di nuove cure più mirate, i farmaci biologici per esempio, la chemioterapia andrà in pensione?
     “Per alcune neoplasie ben specifiche, come per esempio nel tumore del rene metastatico, è stato osservato che questi farmaci somministrati da soli (in monoterapia) sono molto efficaci e rappresentano davvero un punto di svolta nella cura dei malati di tumore. Oggi i ricercatori però stanno osservando come questi farmaci, nella maggior parte delle malattie, funzionino meglio se abbinati alla chemioterapia tradizionale, è come se ne potenziassero l’effetto. Essi vengono utilizzati anche per ridurre la malattia e per poter intervenire chirurgicamente sul paziente, chirurgia che se effettuata in maniera radicale impatta notevolmente sulla guarigione. Passi da gigante sono stati fatti anche nel campo della radioterapia: ci sono macchinari nuovi, come il Cyberknife, che permettono di poter agire in maniera chirurgica sulla malattia lasciando il tessuto intorno assolutamente sano, con nessuno o minimi effetti collaterali.”
     Come reagiscono alle cure le persone più anziane?
     “Il trattamento cambia in base alle altre patologie che sono presenti nell’anziano. Ci sono persone in là con gli anni che sono estremamente attivi e reattivi, altri che, causa magari patologie collaterali quali il diabete o le vasculopatie, sono più fragili. Se la persona è solo anagraficamente anziana, ma non ha particolari problemi di salute, gli si può somministrare la stessa terapia prescritta ad una persona giovane. Anche dal punto di vista degli interventi chirurgici, è la medesima cosa, ci sono pazienti che sopportano tranquillamente anestesie ed intervento, altri un pochino più delicati che necessitano di interventi più misurati.”
     La FSM è un centro specializzato per la prevenzione e la cura del tumore della mammella, neoplasia femminile per eccellenza. Quanto impatta sulla vita di una donna questa malattia?
     “Tanto, anche dal punto di vista psicologico, in quanto il seno fa parte della propria rappresentazione corporea; il fatto di avere una cicatrice più o meno deturpante sul seno ha un grosso impatto sulla psiche femminile. Il nostro Centro Senologico, che fa parte di un gruppo internazionale denominato EUSOMA, conta nel suo organico un chirurgo senologo e un chirurgo plastico ricostruttivo dedicati alla mammella, l’oncologo, il radioterapista, il fisioterapista, che aiuta la paziente nei casi più complessi, e il supporto psicologico. Un’attenzione globale a 360° per la donna: dal momento della diagnosi fino all’intervento e al suo recupero post-ospedaliero.”
     “Il supporto psicologico serve anche per quelle donne che, dopo l’intervento, si trovano a dover affrontare una eventuale chemioterapia o la radioterapia, con la conseguente caduta dei capelli e tutti i suoi effetti collaterali. Il tumore alla mammella colpisce certamente donne sopra i sessant’anni, ma anche tante ragazze giovani, che sono madri, che lavorano ed hanno una vita sociale attiva e che si ritrovano a dover fare i conti con questa malattia senza avere la certezza di continuare a condurre la propria esistenza come prima, senza grossi sconvolgimenti.”
     “Un altro aspetto da considerare è l’impatto sulla vita sessuale della donna: le terapie causano dei cambiamenti a livello genitale femminile, pertanto, avere rapporti sessuali può essere doloroso, più fastidioso, facendo le cure bisogna cercare di non rimanere incinta, quindi bisogna avere rapporti protetti. D’altro canto, la figura del compagno che sostiene la donna in questo momento così delicato per lei è fondamentale, ma spesso l’uomo non accetta la situazione, aggiungendo alla paziente un ulteriore stress, che può portare anche a rotture famigliari.”
     Guarigioni inaspettate: realtà o leggende metropolitane?
     “Beh… se ne sentono davvero di tutti i colori, dalla cura con l’aloe vera a quella con il bicarbonato, fino ad arrivare allo scorpione di Cuba oggi di gran moda… Le terapie naturali da utilizzare come complemento alla cura tradizionale di certo non fanno male, anzi. Spesso si verifica quello che si chiama ‘effetto placebo’: la persona malata assume una determinata sostanza e crede fermamente che possa aiutarlo a guarire, il suo sistema immunitario ‘si risveglia’ e lo aiuta in tal senso. Bisogna ricordare che è stato scientificamente provato che la vera chiave della cura per il cancro è racchiusa nel nostro sistema immunitario; se un giorno si dovesse trovare il modo di risvegliarlo ed ‘indirizzarlo’ a combattere la malattia sarebbe un gran passo avanti per la ricerca.”
     “Alcune di queste sostanze naturali hanno un’azione anti radicali liberi o sono detossinanti, ma bisogna fare attenzione a non assumerle senza aver avvisato prima l’oncologo, perché possono peggiorare gli effetti collaterali delle cure. L’aloe vera, per esempio, presa ad alte dosi è fortemente lassativa e quindi va a peggiorare le conseguenze gastrointestinali della chemio.”
     Alimentazione: esiste una correlazione con l’insorgenza del cancro? Essa può anche essere coadiuvante per le cure?
     “Un’alimentazione non corretta predispone certamente a certi tipi di tumore, quali quelli gastrointestinali. Chi segue una dieta ricca di carne, di grassi animali e tanta carne alla brace, povera di vegetali e vitamine è certamente più a rischio di chi segue un alimentazione corretta. Oltretutto, seguire un’alimentazione bilanciata permette di reagire meglio alle cure mantenendo il peso idoneo visto che tutte le terapie possono causarne un aumento ponderale.”
     Come medico, qual è stato il suo momento peggiore e quale la sua vittoria più grande?
     “Il momento peggiore lo rivivo ogni qual volta viene a mancare un paziente al quale, magari, ci si era affezionati. È sempre una piccola sconfitta anche se sai che hai lottato, fino alla fine, contro la malattia. I momenti belli li vivo quando il paziente viene curato e reagisce bene alle terapie… fortunatamente, ci sono tanti di questi bei momenti, altrimenti uno chiude ‘baracca e burattini’ e va a fare un altro lavoro…”
     C’è mai stato un giorno dove ha detto “basta, mollo tutto”?
     “No, finora no, sono sempre riuscita a bilanciare gli eventi negativi con tutte le positività della mia professione. Se nel futuro dovessi arrivare a quel punto sarà davvero il momento di cambiare professione, quando la negatività prende il sopravvento, il cosiddetto punto di ‘burn out’, bisogna necessariamente mollare… Ovviamente, oncologi e psichiatri sono più soggetti a questo fenomeno, ma molto dipende anche dall’ambiente in cui si lavora: io qui mi trovo bene, ho colleghi con i quali mi posso confrontare e chiedere consigli e questo è un grosso stimolo per andare avanti.”
     Se lei potesse riavvolgere il nastro della sua vita lavorativa e tornare a 11 anni fa, rifarebbe la scelta di diventare oncologo?
     “Assolutamente sì. Alla fine, sono convinta della scelta che ho fatto e vado avanti sulla mia strada, il futuro, poi, chissà cosa mi potrà riservare…”

 

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