- Seconda parte
Ai primi di febbraio del 1831, il musicista fece ritorno a Napoli, anche se i moti rivoluzionari della città fecero impensierire non poco la sua famiglia e gli amici bergamaschi. Il 1831 fu un anno tranquillo per il musicista anche se, per mantener fede agli impegni presi con il Barbaja, consegnò altre opere: l’opera semiseria “Francesca di Foix” e l’opera buffa “La romanziera e l’uomo nero”, “Gianni di Parigi”, composta appositamente per il tenore Rubini, e l’opera seria “Fausta”. Mentre quest’ultima ebbe un buon successo, quella successiva, “Ugo, conte di Parigi”, fu accolta tiepidamente. Il musicista cercò subito il riscatto e compose “L’elisir d’amore” (12 maggio 1832); il successo strepitoso stupì alquanto Donizetti, che aveva composto l’opera in soli quattordici giorni! Egli pensò, tuttavia, che mancasse qualcosa a quella musica, pertanto eseguì una variazione sul libretto inserendo, nel secondo atto, l’aria del tenore “una furtiva lacrima”, piccolo capolavoro che rese il finale dell’opera di una struggente malinconia.
Ormai libero dal contratto con Barbaja, Donizetti poteva scrivere per qualsiasi teatro, ma egli si legò all’impresario milanese Alessandro Lanari, chiamato “il Napoleone degli impresari”. Dopo il successo di “Sancia di Castiglia”, rappresentata ancora a Napoli per l’amico Barbaja, egli scrisse “Il Furioso all’isola di Santo Domingo”, andato in scena il 2 gennaio 1833, la quale, raccogliendo enormi consensi di pubblico e di critica, girò tutti i teatri d’Europa ed inaugurò la stagione 1833-1834 del Teatro della Scala di Milano.
Il 17 marzo 1833, il compositore mise in scena alla Pergola di Firenze “Parisina”, interpretata dal tenore francese Gilbert Duprez, grande amico del Donizetti ed “inventore” del “do di petto” che tanto emozionava le donzelle in sala. Duprez, nella sua autobiografia “Souvenirs d’un chanteur”, così ricorda il Donizetti “…pur avendo la coscienza del proprio valore non ne andava superbo; dotato di fervida immaginazione e di grandissima attività, non poteva aver sottomano quattro versi senza metterli in musica, mentre stava in piedi, mentre camminava, mentre mangiava, mentre riposava”. Le affermazioni del tenore trovano riscontro nella prolifica attività artistica del maestro.
Un altro personaggio che affascinava Donizetti era il grande poeta di origini bergamasche Torquato Tasso: dopo essersi documentato sullo sfortunato poeta, egli decise di dedicargli un’opera, andata in scena il 9 settembre 1833, la quale, purtroppo, non riscosse il successo che si meritava. Verso la fine dell’anno, su commissione del duca Carlo Visconti, impresario della Scala, scrisse “Lucrezia Borgia”, andata in scena il 26 dicembre 1833 con grande successo: quest’opera non ebbe vita facile, causa i capricci delle ugole che la dovevano interpretare e che costrinsero il maestro a molte variazioni sul tema ed alla censura feroce che lo obbligò a cambiare diverse volte il titolo all’opera e ad “addolcire” il personaggio fosco di Lucrezia Borgia, celebre figlia di Alessandro VI. Prima di ripartire per Napoli, carico di successi, il compositore mise in scena, alla Pergola di Firenze, con esito alquanto mediocre, la “Rosmonda d’Inghilterra”. In seguito, il Re di Napoli lo nominò maestro di contrappunto e composizione al Real Collegio di Musica della città, con uno stipendio di 400 ducati al mese. La nomina fece nascere dell’invidia nel Bellini, ma Donizetti si fece amare dai suoi allievi anche in questo ruolo di didatta.
Nel 1834 pubblicò altri capolavori: la “Maria Stuarda”, rappresentata a Napoli il 18 ottobre, e “Gemma di Vergy”, rappresentata alla Scala nella sera del 26 dicembre. Alla fine dell’anno, una notizia d’oltralpe riempì di gioia il cuore del musicista: Rossini, chiamato “il Giove olimpico della Musica”, invitò il musicista a Parigi per rappresentare una sua opera al Theatre des Italiens. Il 12 marzo 1835, Donizetti mise in scena il “Marlin Faliero”, opera che segnò il suo esordio oltralpe. Al rientro in Italia, la sera del 26 settembre 1835, mise in scena al Teatro San Carlo di Napoli l’opera “Lucia di Lammermoor”: il successo fu tale che il musicista venne portato in trionfo dal teatro fino alla sua abitazione. La figura della protagonista dell’opera aveva tanto coinvolto il musicista da portarlo a calarsi completamente nella parte come finora nessuna della sue eroine era riuscita a fare; su libretto di Salvatore Cammarano, l’opera fu scritta in meno di un mese. Di essa si è scritto: “non vi è pagina della Lucia di cui non si possa parlare di capolavoro e, per alcune, di intervento divino (l’ispirazione è sempre intervento divino); inutile fare citazioni, ma la scena della pazzia è un modello per tutto l’Ottocento e, purtroppo, un presagio per la fine dell’autore”.
Per il Donizetti il 1835 fu purtroppo anche l’anno dei lutti. Il 23 settembre morì a Parigi Vincenzo Bellini, evento che turbò alquanto il maestro, il quale rimase unico protagonista sulla scena musicale. Egli stimava molto il catanese, nonostante la rivalità artistica, e volle onorare la sua memoria scrivendo una “Messa da Requiem” che fu un capolavoro. L’anno si chiuse anche con la morte del padre Andrea, che fu purtroppo l’inizio di una lugubre serie: il 10 febbraio 1836 mancò la madre, a causa di un colpo apoplettico, e sempre nello stesso mese la moglie Virginia ebbe un nuovo, infelice parto. Disperato, Donizetti si buttò nel lavoro e mise in scena, a Venezia, una nuova opera, “Belisario” (4 febbraio 1836), alla quale seguirono due opere buffe, “Il campanello dello speziale” (7 giugno 1836) e “Betley” (24 agosto 1836), tutte rappresentate a Napoli. Purtroppo l’opera successiva, “L’assedio di Calais” (19 settembre 1836), non piacque molto al pubblico napoletano. Nello stesso periodo, dalla Francia arrivò, tuttavia, un prestigioso riconoscimento per il musicista, la nomina a cavaliere della Legion d’Onore.
Nel 1836 scoppiò a Napoli una epidemia di colera e i teatri furono chiusi per un certo tempo. Il musicista, che non amava oziare, continuò la sua prolifica opera di compositore realizzando arie e duetti per pianoforte. Ai primi di febbraio del 1837 si recò a Venezia per l’inaugurazione del Teatro La Fenice, andato distrutto per un incendio. Ci furono da subito parecchi problemi a causa del colera diffuso in tutto il Nord Italia e delle problematiche relative alla ricostruzione del teatro; inoltre, il musicista aveva il pensiero rivolto all’amata moglie che era in attesa del terzo figlio. Fra mille difficoltà, l’opera “Pia de’ Tolomei” fu rappresentata a Venezia, al Teatro Apollo, il 18 febbraio 1837. Altre lacrime attesero il musicista durante l’anno. Nacque e morì anche il terzo figlio, mentre la moglie Virginia, la cui salute era già stata compromessa dalle gravidanze problematiche, morì il 30 luglio a causa del morbillo. Donizetti si disperò, tanto che scrisse al cognato in una lettera straziante: “Io sarò eternamente infelice! Senza padre, senza madre, senza moglie, senza figli. Per chi lavoro io dunque? Perche? (…) tu solo mi resti fino a che essa avrà intercesso da Dio la mia morte e la nostra eterna unione”. Proprio questa disperazione così cupa spinse gli amici a sorvegliare il maestro da vicino per scongiurare un’altra tragedia: il suo suicidio. Dopo quattro mesi d’agonia, Donizetti chiuse per sempre la sua camera da letto coniugale dove, ormai, non riusciva più ad entrare.
In soccorso della sua anima tormentata arrivò la musa della Musica: il 29 ottobre 1837 venne rappresentata al San Carlo di Napoli “Roberto Devereux”, mentre il 30 gennaio 1838 fu messa in scena al ricostruito Teatro La Fenice la nuova opera “Maria de Rudenz”, la più cupa e tragica fra tutte le opere scritte dal bergamasco. Fra la morte, il colera a Napoli e le sommosse popolari in Sicilia, un’aria cupa aleggiava intorno al maestro il quale, nelle sue lettere, spesso invocava la sua fine.
Le amarezze perdurarono anche nel 1838, l’ultimo passato a Napoli. La nuova opera “Maria de Rudenz” non riscosse quel successo che egli si aspettava. Inoltre, la censura intervenne piuttosto drasticamente sul nuovo lavoro “Poliuto”: si trattava di un’opera di genere religioso, “una tragedia sullo sfondo delle persecuzioni cristiane”. La censura borbonica, ferrea, bocciò il lavoro comunicando al musicista che “la gloria dei santi è riservata agli altari e non al teatro”. Quest’opera sarà rappresentata a Napoli solo nel 1848, dopo la morte del maestro. Intanto, Donizetti, amareggiato, deluso ed addolorato dai tanti lutti, lasciò definitivamente Napoli per trasferirsi a Parigi.
Nella capitale francese il compositore si tenne occupato nel trasformare il “Poliuto” ne “Les Martyrs”. Contemporaneamente, scrisse “Le Duc d’Albe”, incompiuta e pubblicata postuma a Roma nel 1882. Egli si sentiva solo e il fermento parigino non sembrava giovargli granché: Bellini era morto, Rossini non scriveva più per il teatro e Giuseppe Verdi era solo agli esordi. La “Ville Lumière” viveva in quel periodo un intenso fermento culturale: Wagner, Listz, Chopin, Berlioz, Mendelsshon frequentavano i salotti della città, compreso quello fiorentissimo tenuto da Bellini, e tutti gli esponenti della cultura e dell’opera del periodo frequentavano il Theatre des Italiens. Qui Donizetti mise in scena le sue opere più famose, quali “Roberto Devereaux” ed “Elisir d’amore”, ma fu con “Lucia di Lammermoor” che riscosse il maggior successo. Prima di andare in scena all’Opera con “Les Martyrs”, Donizetti fece rappresentare “La fille du Regiment”, che riscosse successo di pubblico e notevole indivia da parte di Berlioz, il quale denigrava vistosamente il maestro bergamasco. Nel corso del ‘800 quest’opera fu messa in scena un centinaio di volte in tantissimi teatri, non solo parigini, ma anche europei. Il 10 aprile 1840 “Les Martyrs” andò in scena e fu di nuovo trionfo. L’ambiente musicale parigino, Berlioz compreso, riconobbe ufficialmente il talento del Donizetti.
L’altra sua opera, invece, “Le Duc d’Alba”, rimase incompiuta. Il compositore doveva consegnare lo spartito entro il primo gennaio del 1840, pena una multa di 4.000 franchi, tuttavia abbandonò la sua realizzazione quando si accorse che, a causa forse di un intrigo a suo danno, essa non sarebbe stata rappresentata all’Opera. Intentò causa al teatro stesso e vinse; l’opera, completata poi dall’allievo Matteo Salvi, verrà rappresentata a Roma il 22 marzo 1882. Nel frattempo, Donizetti stava scrivendo “L’ange de Nisida” per un altro teatro parigino, destinato però al fallimento; effettuata qualche modifica alla musica, il lavoro divenne “La Favorita” e venne rappresentata all’Opera di Parigi il 2 dicembre 1840. Tutt’oggi è considerata il capolavoro dell’età matura del Donizetti.
Il 1840 si chiuse con una parentesi amorosa felice nella vita del compositore: egli ebbe una relazione con la moglie del banchiere de Coussy, Zelie, dalla quale trasse un poco di conforto affettivo. Dopo aver trascorso le vacanze insieme a lei in Svizzera, “madame” accompagnò il maestro in Italia, dove era intenzionato a passare le vacanze natalizie in casa Vasselli. Purtroppo, a causa di una burrasca, arrivò in Italia solo il 28 dicembre. La valigia dei “cadeaux” conteneva anche un'altra sua opera commissionatagli dall’impresario romano Jacovacci: “Adelia” o “La figlia dell’arciere”, che andò in scena al teatro Apollo di Roma l’11 febbraio 1841. L’effetto Donizetti, ovvero la conseguenza della sua grande popolarità, causò un pasticcio: il teatro era affollato, vista la vendita più che abbondante di biglietti, e accadde “un baccano infernale”. L’impresario andò in galera e l’opera fu ben presto dimenticata, suo malgrado. Il musicista fece allora ritorno a Parigi dove, in un periodo di calma, compose “Rita”, opera comica che fu un piccolo capolavoro. La permanenza intermedia a Milano, ospite dell’amico impresario Bartolomeo Merelli, gli permise di recarsi spesso nella sua amata Bergamo, ospite dei baroni Basoni-Scotti fino al 9 marzo 1842 quando, dopo aver applaudito alla Scala un giovane Giuseppe Verdi, ne il “Nabucco”, si lanciò in una nuova avventura.
Dopo aver affascinato Parigi, su richiesta dell’amico Morelli, il 19 maggio 1842, mise in scena al Kärntnertortheater di Vienna l’opera “Linda di Chamounix”, un altro capolavoro. L’imperatore Ferdinando, il quale aveva assistito alla rappresentazione dell’opera, propose al musicista di comporre qualche brano per la cappella imperiale, così egli scrisse una “Ave Maria” a cinque voci ed archi dedicata all’Imperatore ed alla Imperatrice sua consorte, Maria Anna. L’intera corte asburgica lo acclamò e il 3 luglio 1842 venne nominato maestro di cappella e di camera dell’imperatore. Donizetti era al settimo cielo per avere quello che era considerato “il posto di Mozart”, però i successi viennesi non erano casuali, ma frutto, oltre che del suo genio, anche di una certa maturità nella scelta dei brani da proporre al suo pubblico. Nonostante tutto, i ricordi e gli affetti lasciati in Italia lo fecero rientrare in patria per sistemare ciò che aveva lasciato in sospeso, anche se non riuscì mai a vendere la casa napoletana, dove aveva vissuto con l’amatissima moglie Virginia. Giunto in patria, gli venne offerto di scrivere un’opera comica e si mise subito al lavoro. L’opera “Don Pasquale” andò in scena al Theatre des Italiens, a Parigi, il 3 gennaio 1843, e il pubblico francese andò in delirio. I critici fecero notare che la voglia di nozze del protagonista, Don Pasquale, appunto, era quasi… autobiografica, in quanto era nota nell’ambiente musicale la voglia del maestro di rifarsi una famiglia, soprattutto dopo aver conosciuto, nell’ultimo soggiorno napoletano, le marchesine Sterlich, avvenenti austriache piene di curve e di cure nei suoi confronti. Quest’opera viene considerata oggi come l’ultimo grande capolavoro donizettiano.
Successivamente, il 5 giugno 1843, tenendo fede al suo impegno di operista, dopo “Linda di Chamonix”, Donizetti mise in scena a Vienna “Maria de Rhoan”, un’opera in tre atti su libretto di Cammarano. Ritornò di nuovo a Parigi, dove si mise subito al lavoro per completare una grande opera da rappresentare al Theatre de l’Opera ,“Dom Sébastien”, ma la critica parigina non si mostrò tenera con il maestro, criticando alacremente la rappresentazione. In seguito, mise in scena a Napoli l’opera “Caterina Cornaro”, che fu accolta freddamente proprio dal teatro a lui così caro, evento che gli procurò una certa amarezza. Intanto, i sintomi della malattia, che lo avrebbe portato alla morte, iniziarono a manifestarsi.
Insieme al fratello Giuseppe, divenuto direttore delle bande imperiali ottomane a Costantinopoli, Gaetano Donizetti ritornò a Bergamo per far visita ad una amica, la baronessa Basoni-Scotti, che “passava le acque” in quel di Boario Terme. Il maestro fu accolto festosamente presso l’Accademia Tadini di Lovere (28 luglio 1844), dove furono rappresentate alcune delle sue arie più famose. Gli amici, tuttavia, notarono in lui i segni evidenti di una profonda stanchezza accentuata da una tristezza infinita. La baronessa, grande amica del compositore, nutriva un grande affetto per Donizetti ed amava ospitarlo nella sua residenza estiva, la Dorotina. Ella, nelle sue memorie, ricorda con sofferenza gli ultimi anni di vita del musicista, tant’è che proprio la baronessa lo avrebbe ospitato nell’epilogo della sua esistenza.
Il musicista stava proprio male, sempre più solo, sprofondato nella sua tristezza e malinconia. Giunto a Parigi, il nipote Andrea, dopo numerosi consulti medici, decise di farlo internare in una casa di cura fuori città e, con uno stratagemma, Donizetti fu rinchiuso con l’inganno nel manicomio di Ivry, come un pazzo qualsiasi. Genio sì, pazzo non di certo. Quando la notizia giunse a Bergamo, i suoi amici si diedero da fare per cercare di farlo rientrare in Italia e toglierlo da quel luogo di tristezze che certo non meritava.
Nel 1847, dopo sedici mesi di degenza forzata nella casa di cura di Ivry, la burocrazia parigina cedette e diede il consenso al rientro in Italia del compositore, ormai completamente incapace di intendere e di volere. Dopo diciotto giorni di viaggio, il 19 ottobre 1847, venne accolto amorevolmente proprio dalla duchessa Basoni-Scotti. Così ella scrive nelle sue memorie: “Finalmente egli è a Bergamo, non solo, ma a casa nostra. (…) tuttavia l’intelligenza egli ce l’ha perché quando lo chiamiamo e gli domandiamo se ci conosce, fa cenno col capo di sì”.
A Bergamo fu assistito dal dottor Cassis, il quale, all’inizio, aveva notato un certo miglioramento nella malattia; tuttavia, la stadio avanzato della paralisi cerebrale causata dalla sifilide pose presto fine alla sua tormentata esistenza.
Gaetano Donizetti morì l’8 aprile 1848, alle ore cinque pomeridiane.
I bergamaschi e il mondo intero resero omaggio alla salma del grande maestro Donizetti, esposta a Palazzo Basoni-Scotti, mentre l’11 aprile 1848, si svolsero imponenti manifestazioni funebri, degni della sua grandezza. I suoi resti furono sepolti nel cimitero di Valesse, Bergamo.
Nel 1875, con grandi onori, la sua salma fu riesumata per essere degnamente collocata accanto all’amato maestro Simone Mayr, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, dove tutt’ora riposa.
L'articolo è stato realizzato con l'ausilio del testo denominato:
IL MUSEO DONIZETTIANO IN BERGAMO, di Fabrizio Capitanio,
edito nel 2002 a cura dell'Assessorato alla Cultura e Spettacolo del comune di Bergamo.
Si ringraziano per la gentile collaborazione e disponibilità
il dott. Capitanio, la dott.ssa Palermo,
la Biblioteca Donizetti e la Biblioteca civica A. Mai.
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