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"...Montanelli lesse il mio pezzo, mi mandò a chiamare e mi disse: ‘Ragazzo,
chi sei tu che scrivi questi pezzi così interessanti?’ Io rimasi esterrefatto..."

                                        di Cristina Mascheroni e G.P.Vavassori

     Le circostanze tramite le quali abbiamo incontrato Massimo Jevolella sono del tutto particolari. Ci siamo conosciuti durante una riunione civica di paese, nel pavese, con lo scopo di “combattere” insieme per il bene della comunità e… scoperte le carte del “chi sei tu e chi sono io” abbiamo approfittato della prossima uscita del suo libro per una personale intervista per Infobergamo.it.
     Massimo Jevolella, il quale scherzosamente ci evidenzia che il suo cognome, di origine campana, si scrive con la “J” lunga ma all’anagrafe è stato scritto con la “I” normale, è nato nel 1950 a Milano da papà siciliano e mamma friulana, ha vissuto nella caotica città natale fino alla laurea; poi, una breve parentesi a Bologna, durata qualche anno, dove ha intrapreso la carriera giornalistica, e dopo un “ritorno di fiamma” per la metropoli milanese, piano piano si è spostato sempre più verso la campagna, il verde e la tranquillità pavese, appunto.
     Papà siciliano, mamma nata in Friuli, cittadino milanese e bolognese, oggi felice abitante di “campagna”: cosa preferisci, la campagna o la città?
     “Beh, diciamo che quando sono in città mi manca la campagna, quando sono in campagna ho voglia di tornare in città.”
     Parlaci allora un po’ di te, i tuoi studi e i tuoi esordi nel mondo lavorativo.
     “Mi sono laureato in Filosofia all’Università Statale di Milano nel 1974 (con una tesi dal titolo ‘Surrealismo ed utopia’ n.d.r.) e ho iniziato ad insegnare in una scuola media, assai turbolenta, dell’hinterland milanese. Il mio debutto in campo giornalistico è stato abbastanza casuale. Mi trovavo a casa di uno zio, a Bologna, a cena con degli amici che bazzicavano già l’ambiente giornalistico. Uno di loro mi chiese a bruciapelo: ‘Visto considerato che sei bravo a scrivere, perché non collabori con qualche giornale?’ L’idea non mi sembrava male, anzi. È iniziata così, nel 1975, la mia collaborazione con ‘Il Nuovo Quotidiano’, diretto da Enzo Tortora; facevo il cronista e mi occupavo sia di cronaca bianca sia di quella nera. È stato un periodo davvero stimolante, questa professione e quello che facevo mi piacevano molto. L’anno dopo, il mio incontro con Vittorio Buttafava mi aveva portato a collaborare anche con un settimanale storico per quei tempi, “Epoca”, in qualità di inviato. Furono anni duri ma entusiasmanti, scrivevo i pezzi nelle redazioni e vi lavoravo senza essere assunto direttamente; allora eravamo l’equivalente dei nostri collaboratori occasionali di oggi, e si apprendevano i rudimenti di una bella professione qual è il giornalismo. In quegl’anni si faceva del buon giornalismo di qualità, un’informazione ben fatta ed interessante. Ho imparato molto in queste due redazioni.”
     “Successivamente, nel 1978, ho iniziato a lavorare al quotidiano ‘Il Giornale’, allora diretto da Indro Montanelli, ricoprendo il ruolo di redattore e di inviato culturale. Anche questi furono anni entusiasmanti, una grande scuola di vita e non solo. Ho lavorato in Piazza Cavour fino al 1993, anno nel quale ho conosciuto Andreina Vanni, allora direttrice di ‘Meridiani’, dell’editore Domus, e mi sono buttato in questa nuova avventura. Entrato a far parte della squadra dell’Editoriale Domus, ho iniziato la mia collaborazione con loro fino a diventare capo-redattore prima, direttore della rivista ‘Meridiani’ in seguito, nel 1999. Questa fantastica esperienza lavorativa è continuata fino al 2003, anno nel quale ho deciso di mettermi ‘in proprio’. Da allora, mi sono dedicato intensamente alla mia attività di scrittore/giornalista ed ho iniziato, con ‘Il Mattino’ di Napoli, anche una collaborazione la quale mi dà tante soddisfazioni ancora oggi.”
     Da giornalista a scrittore: quale è stata la motivazione di questo cambiamento?
     “In realtà le due professioni vanno a braccetto…”, ci risponde Massimo con un sorriso crescente, quasi a farci intendere che sia una quanto l’altra professione, se mai possano essere considerate ben distinte, rappresentano una passione inesauribile per lui. “Ricordo che durante il periodo di collaborazione con ‘Il Giornale’ ho dato alle stampe il mio primo libro anche se, in realtà, più che di un libro si trattava di un’antologia: questa mia polivalenza, questo mio amore per la scrittura e per l’informazione sono stati alcuni dei motivi per i quali Indro Montanelli mi ha assunto in redazione. Il libro si intitolava ‘Il quotidiano come nasce’. Sulla copertina si può vedere la rotativa di stampa dove usciva ‘Il Giornale’; in esso vi raccontavo per filo e per segno come nasce un quotidiano, quali sono i processi che portano alla scelta degli articoli, alla loro impaginazione, fino alla stampa finale, quando il giornale è pronto per andare in edicola, una specie di ‘dietro alla quinte’ di un quotidiano per spiegare a tutti, in modo semplice, come nasce ciò che migliaia di persone leggono giornalmente.”
     Nella tua carriera hai collaborato con parecchie testate giornalistiche importanti e scritto per molte persone. Qual è il periodo e il luogo di lavoro che ricordi con più piacere?
     “Senza ombra di dubbio il mio esordio a Bologna, in quanto il contatto con questa professione è stato al tempo stesso molto duro ma affascinante. Ero un cronista di provincia, quindi venivo a contatto con realtà disparate: un giorno mi ritrovavo a pranzo con i più grandi industriali della zona, mentre il giorno dopo andavo a fare le inchieste in mezzo alla gente comune, a raccogliere gli umori e le opinioni della povera gente. Ho tanti bei ricordi di quel periodo, alcuni anche abbastanza bizzarri, come quella volta che mi sono ritrovato con un collega in giro per i boschi della zona a cercare… una cassaforte scassinata! L’abbiamo ritrovata, certo,” ci spiega ridendo di gusto, “ma era piena di cambiali! In quel periodo ci fu anche il mio battesimo del fuoco.” Il suo sguardo si fa serio e profondo e prosegue. “Mi ritrovai a dover intervistare persone affrante dal dolore della perdita di una persona cara e non fu affatto facile, anzi. Presentarsi alla porta di chi ha perso qualcuno, suonare il campanello e dire ‘Buongiorno, sono un giornalista, avrei qualche domanda da farle sull’incidente che è costato la vita a suo figlio…’ beh, non è stato certo semplice.”
     Qual è stata, invece, la tua più grande soddisfazione professionale?
     “Fondamentalmente sono state due. La prima è stata quando il grande Indro Montanelli mi ha scoperto. Mi era stato commissionato un pezzo da Leopoldo Sofisti, uno dei più famosi macchinisti (esperti nella fattura quotidiana del giornale n.d.r.) de ‘Il Giornale’. Quando Montanelli, il quale allora era il direttore della testata, lo lesse, mi mandò a chiamare e mi disse: ‘Ragazzo, chi sei tu che scrivi questi pezzi così interessanti?’ Io rimasi esterrefatto e un po’ imbarazzato, un tal complimento da un grande del giornalismo come lui non me lo aspettavo. Da allora mi commissionò pezzi per la terza pagina, evento che, per quei tempi, era un gran privilegio; in terza pagina, scrivevano soltanto nomi noti, persone di un certo rilievo, che facevano giornalismo di qualità. Fu un grande onore per me e una straordinaria opportunità di carriera. Iniziò così la mia carriera a ‘Il Giornale’, prima nella redazione spettacoli (critico cinematografico e teatrale), poi agli Interni, infine come inviato culturale.”
     “L’altra grande soddisfazione l’ho avuta durante il periodo nel quale fui direttore di ‘Meridiani’. Avevo una gran bella rivista fra le mani e potevo farne quello che volevo, i numeri pubblicati in quel periodo erano fantastici, di qualità: pensate che per certe edizioni, su di una tiratura di 100.000 copie, le prime 70.000 venivano vendute in un batter d’occhio! Senza contare le ristampe, anche a distanza di tempo, di quelle edizioni che il pubblico gradiva molto, come per esempio le monografie dedicate ad un unico paese. ‘Meridiani’ è stata una rivista fantastica, anche se a volte veniva ‘criticata’ dai detrattori in quanto considerata ‘di nicchia’ o dal prezzo non propriamente ‘popolare’. Stiamo delle vecchie 12.000 lire, una cifra ragguardevole per un mensile. Era molto bella, con fotografie di ottima qualità, ma anche gli articoli non erano da meno. Vi sono state molte collaborazioni importanti, articoli scritti da firme note nel campo della cultura e della scienza, e non solo. Ho pubblicato anche dei pezzi, preparati in esclusiva per la rivista, firmati da scrittori Premi Nobel, pensate che soddisfazione! Di quel periodo ricordo con affetto e piacere un numero particolare, dedicato alla Polonia. Con il Presidente della Domus Giovanna Mazzocchi, andammo in Vaticano a consegnare una edizione speciale di quel numero proprio a Karol Wojtyla, in un cofanetto preparato per l’occasione. Accanto alla rivista, trovava posto un semplice libretto, scritto molto bene, dedicato alla vita ed alle opere del Santo Padre. Fu un momento molto commovente, se chiudo gli occhi sento ancora il tocco morbido della mano del Papa appoggiata alla mia…”
     C’è stato un periodo professionale, invece, che vorresti dimenticare?
     “Sì, purtroppo c’è… ed è il periodo legato alla fine della mia collaborazione proprio con ‘Meridiani’. La rivista aveva preso un imprinting troppo commerciale e stava cambiando, doveva sottostare a troppe regole pubblicitarie e non riuscivo più a realizzare quel giornalismo di qualità che a me piace molto. Così, ho preso il coraggio a quattro mani e sono andato alla presidenza della Domus Editore per comunicare la mia decisione… alle loro regole non potevo più sottostare e ho preferito ‘abbandonare la nave’. Pentito della mia scelta? No, non credo, anche se è stata una scelta difficile e sofferta. Sono convinto che se l’editore mi avesse ascoltato e non avesse stravolto la formula di questo periodico, ancora oggi, sarebbe una ottima rivista di qualità con una propria nicchia di estimatori. Certo, soffrirebbe anch’essa della crisi che ha investito tutti i settori, compreso quello dell’editoria, ma lo ‘zoccolo duro’ dei lettori, quelli di settore per intenderci, avrebbe resistito e ci saremmo ritrovati comunque con la nostra quota di lettori affezionati e di abbonati.”
     Ricordi l’emozione della nascita del tuo primo libro?
     “Come dicevo prima, durante la mia collaborazione con ‘Il Giornale’ ho scritto diversi libri ed antologie di settore, ma il mio primo, vero libro è stato ‘I sogni della storia. Eroi, santi e stravaganti’, pubblicato da Mondadori nel 1991, una serie di racconti sospesi a metà fra realtà e fantasia. Un altro mio libro che mi ha dato grandi soddisfazioni è stato la prima traduzione italiana in versi dal francese antico del libro ‘Il romanzo della rosa di Guillame de Lorris’, pubblicato nel 1983 da Edizioni Archè: un capolavoro della letteratura francese scritto nel 1230 da Guillame de Lorris, che racconta l’iniziazione all’amore e all’eros di un giovane che in maggio, in un magico giardino, si innamora di una Rosa, simbolo dell’Amore e della Sapienza. Questa traduzione è durata ben tredici mesi, ma le soddisfazioni derivanti da questo libro hanno ben ripagato la fatica.”
     Ricordiamo che, successivamente, Massimo Jevolella ha pubblicato, nel 2004 per Boroli Editore, “Non nominare il nome di Allah invano, il Corano libro di pace”, un libro scritto per dimostrare come, analizzando attentamente il Corano ed interpretandolo attraverso le tradizioni mistiche musulmane, il sufismo, la parola di Allah ha nulla a che vedere con le follie degli estremisti islamici. A seguire: “Le radici islamiche dell’Europa” (Boroli Editore, 2005) e “Saladino, eroe dell’Islam” (Boroli Editore 2006), un libro che ha portato Jevolella al centro dell’attenzione dei media nazionali. Il sultano Salâh ad-Dîn, dipinto dalla letteratura come “Saladino il feroce”, viene considerato l’autore della riconquista da parte dei musulmani della città santa di Gerusalemme, considerata questa parte integrante del mondo islamico fino a diventare il supremo simbolo della loro ostilità verso Israele e verso l’Occidente. In mezzo, tante altre pubblicazioni… la penna di Massimo Jevolella è veramente instancabile.
     Parlaci delle tue ultime fatiche letterarie.
     “ll mio ultimo libro è stato ‘Rawâ, il racconto che disseta l’anima’, pubblicato nel 2008 da Edizioni Red. Si tratta di un libro fortemente spirituale, di nicchia, se vogliamo, e racconta dei vuoti che accompagnano le idolatrie, demolendo la logica che risiede dietro ai conflitti di civiltà. Rawâ è un verbo arabo che significa al tempo stesso ‘raccontare’ e ‘dissetare’ e il libro si propone come una raccolta di dialoghi per ‘dissetare’ l’anima del viandante moderno assediata dalle angosce che affollano il vuoto dei nostri giorni. Pur essendo un testo così particolare, questo libro mi ha dato e continua a darmi grandi soddisfazioni, tant’è che un liceo di Milano lo ha adottato come testo scolastico e, recentemente, alcuni brani tratti dal libro sono stati messi in scena da alcuni studenti in una rappresentazione teatrale.”
     Progetti futuri?
     “In questi giorni sto ultimando le bozze della mia ultima fatica letteraria, la quale verrà pubblicata a gennaio 2010. Ho proposto alla Edizioni Red una storia un po’ particolare… Il Mal di Denti visto attraverso la Storia oppure la Storia del Mal di Denti, come più vi piace”, e prosegue divertito. “L’idea è piaciuta molto, tanto che si è trasformata in un libro intitolato ‘Ma liberaci dal mal di denti’, con vignette di Emilio Giannelli (vignettista del Corriere della Sera n.d.r.). Si tratta di un percorso attraverso la storia alla ricerca di curiosità e aneddoti proprio su questo malanno così comune, che affligge sia i potenti quanto i poveri, senza distinzione. Ho scovato un sacco di curiosità in merito, alcune veramente bizzarre, come l’usanza della bella Poppea di usare come collutorio… l’urina dei propri amanti! Inoltre dovete sapere che, leggendo dei miracoli compiuti da Gesù, ho notato che, fra i vari malanni da lui risolti, nessuno riguardava i denti… proprio questo particolare ha ispirato Giannelli con una vignetta che sarà la copertina del libro…”
     “Per la distribuzione di questo libro, c’è anche un progetto con ANDI, Associazione Nazionale Dentisti Italiani, che lo renderà disponibile in tutte le salette d’attesa degli studi dentistici… vediamo! Chissà, se poi il libro dovesse piacere potremmo anche decidere di iniziare una collana di libri di questo genere, vedremo…”
     Massimo Jevolella, cronista di strada, giornalista, direttore di riviste prestigiose, scrittore e traduttore di testi importanti, autore di libri mistici ed ora anche umoristici. Da ultimo, ma non per questo meno importante, studioso e conferenziere della lingua araba ed autore di numerosi saggi sull’argomento. Da dove nasce il tuo amore per questa cultura?
     “In realtà ho iniziato a scrivere dei saggi di islamologia per l’editore Boroli già nel lontano 1979. Le radici di questa mia passione arrivano da lontano, per la precisione dalla lontana città di Marsala, in Sicilia, luogo natio di mio padre. Marsala in arabo si scrive ‘Marsa Allam’, che significa porto di Allah. Nella biblioteca di casa da adolescente trovai molti testi che narrano della storia musulmana della Sicilia, le lotte dei saraceni di Sicilia, e ne rimasi semplicemente stregato. Più leggevo e più cresceva in me la voglia di conoscere meglio quel popolo che tanta influenza aveva avuto su questa regione lontana, ma a me vicina nel cuore. Iniziai così a studiare la lingua araba, affascinante quanto difficile, e ne fui completamente assorbito: non era poi così inusuale vedermi in redazione, fra la correzione di un articolo e l’altro, fra un appuntamento e il successivo, con il naso immerso nel libro di grammatica araba, i miei collaboratori non si stupivano più…”
     “In seguito iniziai una collaborazione, durata cinque anni, con l’Istituto di Storia della filosofia dell’Università Statale di Milano diretto dal professore Enrico Rambaldi e, in virtù degli studi fatti e delle conoscenze acquisite, iniziai a partecipare a diverse conferenze sul mondo arabo, anche in qualità di conferenziere. Ricordo ancora l’emozione di Gerusalemme, prima ancora che scoppiasse l’Intifada… Ma il mondo accademico è molto rigido, non ti lascia libero di esprimere le tue passioni con spontaneità come volevo fare io, quindi decisi di abbandonare questa attività accademica e di coltivare questa mia passione per la lingua araba nel mio privato.”
     Per un giovane cha vuole intraprendere la carriera di giornalista in un periodo come questo, dove il precariato è preponderante e le redazioni non assumono, quale consiglio ti senti di dare?
     “Un consiglio? Semplice: scegliti un’altra professione che almeno ti dia da mangiare! Scherzo… devo ammettere, però, che io sono della ‘vecchia scuola’: gli anni hanno cambiato velocemente il modo di fare giornalismo, oggi Internet la fa da padrone nel campo dell’informazione, il mondo si evolve così rapidamente che le notizie di 5 minuti fa possono già essere diventate ‘vecchie’. Ai miei tempi, quando un giornale pubblicava un mio pezzo, amavo andare in edicola, comprarlo e compiacermi della carta stampata: al giorno d’oggi, anch’io ho ceduto al vezzo dell’informazione pubblicata sul Web e i mie pezzi li posso consultare on-line subito dopo che sono stati pubblicati. In realtà, il giornalista, oggi, ha una grande responsabilità, quella di dare un’informazione corretta alla gente. Se un ragazzo sente dentro di sé questa voglia di andare a cercare la verità, anche a costo di grandi sacrifici e mettendo a rischio, a volte, la propria incolumità (penso, per esempio, ai cronisti di guerra), se uno ha tanto coraggio per cimentarsi nella lotta contro l’egemonia del potere, beh, io non mi sento che di approvare, bravo, fallo, continua così perché stai facendo del bene a questa società e sei una persona benemerita, una persona ‘degna di onore’. Fortunatamente, ci sono ancora esempi di buon giornalismo in Italia…”

 

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