IL RUOLO DELL’ANZIANO
                                  di Gaudenzio Rovaris

     Torno a Voi dopo un paio di mesi trascorsi lontano da casa, in cui ho incontrato difficoltà nel comunicare via internet con la redazione, oltre che per una certa indolenza che a volte assale i “vecchietti”. Sono sulle spiagge della Sardegna del Sud e penso anche a chi sta ancora lavorando. Tutti invidiano chi può allontanarsi da casa quando vuole e recarsi dove vuole; per chi ha questa possibilità non sempre la situazione è vissuta in modo positivo: la pensione, pur se conquistata con tanto impegno negli anni di attività, dà un senso di inutilità, di tristezza e porta discorsi orientati piuttosto alle “magagne” dell’età che ai piaceri della vita. Ci si trova tra pensionati, si parla dei sintomi dei vari mali dell’età, si propongono consigli reciproci, si ricordano e si confrontano le esperienze del passato, ridicendosi spesso perché la memoria non ricorda che battute, esperienze, storie sono già state ripetute parecchie volte… ma si finge di non averle mai sentite… o non si ricordano proprio…
     Nei giorni scorsi ho visitato un vicino in una casa di cura tra le più rinomate: c’erano molti vecchietti (era l’orario di ricevimento) seduti in corridoio che mi sorridevano, ai quali ricambiavo il saluto e anche qualche frase d’occasione; altri guardavano intensamente l’entrata chiaramente attendendo una visita. Ho riflettuto sulla realtà della vecchiaia e sui vari ruoli che chi la raggiunge ha avuto nella storia.
     Nell’antichità il vecchio era saggio (o almeno ritenuto tale), partecipava attivamente alla vita della città (dalla gherusia spartana al senato romano solo per citare le cariche più conosciute), veniva rispettato e quasi venerato. La condizione è rimasta tale fino all’industrializzazione, che ha stravolto i ruoli e la società, anche se sopravvivono alcune eccezioni (basti pensare ad Andreotti o a De Mita, simboli di un potere quasi immortale…). Ricordo le famiglie patriarcali contadine del territorio di Bolgare e Telgate, le quali vivevano in cascine che erano vere e proprie frazioni e dove mi recavo da piccolo a giocare con i ragazzi e a … scorazzare con l’“Aquilotto” dello zio prete: il vecchio era un patriarca e nessuno avrebbe mai pensato di lasciarlo in un ricovero… Commovente nella letteratura la figura verghiana di padron ‘Ntoni, che deve lasciare la casa del nespolo per morire in ospedale, dove ci sono lenzuola bianchissime, ma che non hanno certo il calore del suo letto. La gente si accontentava di vivere, del minimo indispensabile (anche ne “I Malavoglia” le disgrazie iniziano quando i giovani non accettano la loro condizione, cercando di cambiare la loro posizione sociale… e diventano dei vinti).

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