"Ci sono persone che parlano, parlano,
ma non sanno davvero cosa significa essere ammalati..."

                                  di Cristina Mascheroni e G.P.Vavassori

     Mauro Rivellini, di Telgate, Bergamo, classe 1971, un’unica grande passione: il calcio. Praticato… Da quasi sei anni, però, il suo nome è cambiato: lui è Mauro, “quello affetto da SLA”, un nuovo cognome molto pesante da portare, lui con altri 500 circa individui in Lombardia, solo 5.000 in tutta Italia… solo?! Solo, perché la ricerca scientifica per aiutare questo 0,008% di malati italiani non ha (non vuole, non ha interesse economico) abbastanza fondi.
     SLA (un nostro caro amico ci ha scritto che questa malattia non merita rispetto, pertanto il carattere maiuscolo, ma noi lo facciamo solo per questioni grammaticali) è l’acronimo di Sclerosi Laterale Amiotrofica, per la quale abbiamo già pubblicato un esauriente articolo nel mese di aprile 2009, cosicché, in questa intervista a Mauro ed a sua moglie Katia, ci limiteremo a raccontarvi come può essere una giornata tipo di un malato SLA.
     Avete presente che cosa significa non potersi più muovere, non essere autonomi, dipendere da qualcuno anche solo per muovere una mano che inizia a formicolare? Credete forse che una persona affetta da SLA sia diversa da noi “sani”… Sbagliato! Mauro è esattamente come noi, vive e vuole vivere, vuole uscire, vuole lavorare, navigare in Internet… giocare a “calcio”, andare in giro, fare un “gir in giro” (da Mr. Crocodile Dundee)… ma non può, il suo corpo non si muove, non risponde ai comandi. Mauro è come ognuno di noi… ma in una prigione, il suo corpo è la sua prigione.


     La sua giornata inizia, solo al sabato, alle 10.00 di mattina, perché in settimana ci si deve alzare un po’ prima in quanto un’assistente lo aiuta per le consuete abitudini di ognuno di noi: lavarsi, vestirsi e fare

colazione, ma la sua “petit dejeuner” è a base di flebo con tutti i nutrienti di cui ognuno di noi ha bisogno per vivere, calcio, ferro, proteine ecc. Prima, però, un grande rito: la discesa dalla camera da letto, sita al primo piano, alla sala da pranzo. Ci sono voluti diversi anni prima di riuscire ad ottenere l’autorizzazione per abbattere le barriere architettoniche al fine di poter installare un ascensore.
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