Che freddo, ragazzi, in questa breve vacanza di Pasqua appena conclusasi. Lauti banchetti, uova di gallina e di cioccolato, colombe e quanto altro prescrive la tradizione (personalmente con rigorosa astensione da agnelli e capretti, che di sacrifici e risurrezioni non gliene può importar di meno), coronati da ardite passeggiate imbacuccati come eschimesi per smaltire le libagioni. Ho approfittato però di alcune ore di forzata reclusione causa temperatura e venti inclementi per leggere un breve racconto di Thomas Mann, in totale 68 pagine e 5 righe, dal titolo “Cane e padrone”, che avevo acquistato un paio d’anni fa, riposto in libreria e lì dimenticato in fondo ad uno scaffale. Una lettura tanto scorrevole quanto gradevole, grazie anche alla maestria dell’autore, uno dei mostri sacri della letteratura tedesca del Novecento.
Di seguito, per darvene un saggio, ho trascritto le battute d’inizio del racconto, l’acuta e magistrale descrizione che l’autore fa del suo adorato Bauschan, sia da un punto di vista fisico che caratteriale. Ciò che ne risulta è a mio avviso un quadro di impareggiabile e rispettosa stima dell’uomo verso il suo cane, un dipinto in cui il meticcio di bracco viene elevato dalla splendida penna dell’autore quasi allo status di suo pari, due esseri viventi che si confrontano con nobile rispetto e pari dignità. Spero vi piaccia. Buona lettura!
“Quando la bella stagione fa onore al proprio nome e il cinguettare degli uccelli è riuscito a svegliarmi presto, perché il giorno precedente lo avevo terminato a tempo, mi piace, prima di colazione, camminare senza cappello per una mezz’ora all’aperto, nel viale davanti a casa, o un po’ più in là, negli ampi prati, per respirare qualche boccata d’aria fresca mattutina prima di sprofondarmi nel lavoro, e partecipare alla gioia del limpido mattino. Allora, sui gradini che portano all’ingresso, lancio un fischio modulato su due note, tonica e quarta inferiore, l’inizio della melodia che apre il secondo tempo dell’Incompiuta di Schubert, un fischio che si può considerare come un nome a due sillabe messo in musica. Un attimo dopo, mentre continuo a camminare verso la porta del giardino, si fa sentire in lontananza, in principio appena udibile, poi sempre più vicino e chiaro, un lieve tintinnio, come quello che può risultare dallo sbattere di una medaglietta contro le borchie metalliche di un collare; e, quando mi volto, vedo Bauschan in piena corsa voltare l’angolo posteriore della casa e precipitarsi su di me, come se volesse buttarmi a terra. Per lo sforzo solleva un po’ il labbro inferiore, così da scoprire due o tre dei suoi incisivi, che luccicano di un bianco candido al sole del mattino.
Viene dalla cuccia che si trova lì dietro, sotto il piano della veranda sostenuto da pilastri, dove forse, fino al fischio a due toni che lo ha ridestato alla vita, si è fatto un breve pisolino mattutino, dopo una notte passata in mille avventure. La cuccia è fornita di tende di stoffa ruvida e il pavimento è cosparso di paglia, per cui succede che qualche fuscello resti attaccato al pelo di Bauschan, già arruffato dal sonno, oppure gli si vada a ficcare fra le unghie delle zampe: uno spettacolo che ogni volta mi ricorda il vecchio conte di Moor, come l’ho visto, durante una rappresentazione singolarmente realistica, uscire dalla Torre della Fame, con una pagliuzza tra le dita dei suoi poveri piedi calzati di maglia.
Senza volerlo mi metto in posizione di difesa e presento il fianco all’assalto di Bauschan, perché la sua finzione di passarmi fra i piedi e di farmi cadere ha un’immancabile forza di suggestione. All’ultimo momento però, subito prima dell’urto, riesce a frenare e a deviare, cosa che dimostra il suo autocontrollo sia fisico che psichico; a questo punto, senza emettere alcun suono, perché fa un uso parsimonioso della sua voce sonora ed espressiva, comincia ad eseguire attorno a me una danza di saluto, fatta di saltelli, di scodinzolii smodati, che non si limitano alla coda, lo strumento espressivo destinato a tale scopo, ma coinvolgono tutta la parte posteriore del corpo fino alle costole; e tutto il suo essere si contrae, scatta in agili balzi di gioia e giravolte intorno al proprio asse, esibizioni tutte che lui, stranamente, cerca di sottrarre al mio sguardo, trasferendo lo spettacolo, dovunque io mi giri, dalla parte opposta. Tuttavia nell’istante in cui mi chino e tendo la mano, eccolo all’improvviso con un salto accanto a me, il corpo premuto alla mia gamba, fermo come una statua: se ne sta con le zampe robuste puntate a terra, di sbieco, il muso alzato verso di me in modo da guardarmi negli occhi da sotto in su, e la sua immobilità, mentre gli batto sulla spalla sussurrandogli qualche parola affettuosa, emana, concentrata, la stessa passione che animava la frenesia precedente.
È un bracco tedesco a pelo raso, se non si prende troppo alla lettera questa definizione, ma la si intende con un po’ di buonsenso, perché un bracco come lo descrivono i libri di stretta osservanza, Bauschan non lo è proprio. Prima di tutto, forse è un po’ troppo piccolo, decisamente “al di sotto”, devo sottolinearlo, delle dimensioni di un cane da punta; poi anche le zampe anteriori non sono ben diritte, anzi sono un po’ piegate all’infuori, cosa che probabilmente non corrisponde con esattezza all’immagine del bracco di razza. La leggera tendenza alla “bargia”, cioè a quel sacco di pelle aggrinzita sotto il collo, che può dare un’impressione tanto dignitosa, gli sta alla perfezione; ma anche questa agli allevatori rigorosi parrebbe un’imperfezione, perché nel bracco, a quanto sento, la pelle deve tendersi ben liscia attorno al collo. Il colore di Bauschan è bellissimo. Il suo manto è a fondo rosso ruggine, tigrato di nero. Però vi è mischiato anche molto bianco, che predomina decisamente sul petto, sulle zampe e sul ventre, mentre il naso schiacciato sembra intinto nel nero. Sull’ampia sommità del cranio e sulle orecchie fredde, il nero forma con il ruggine un bel disegno vellutato; ma il particolare più piacevole del suo aspetto è da considerarsi quella specie di vortice, di ciuffo a punta, in cui gli si attorciglia il pelo sul petto e che sporge in fuori come lo sprone di un’antica corazza. Del resto può darsi che anche lo sfarzo cromatico un po’ arbitrario del suo manto sia ritenuto “inammissibile” da chi consideri le leggi della specie superiori ai valori della personalità, perché il bracco classico deve essere possibilmente di un solo colore o pezzato a macchie sfumate, ma non tigrato… Ma dall’assegnare Bauschan ad una razza specifica con precisione troppo schematica ci distolgono, nel modo più convincente, certi peli che pendono agli angoli della bocca e nella parte inferiore del muso, che, non senza una certa dose di ragione, si potrebbero chiamare baffi e barbetta, ma che, guardati bene, ricordano il tipo del pincher o dello schnauzer.
Comunque, sia bracco o pincher, che bella o buona bestia è Bauschan, mentre tutto teso mi si stringe al ginocchio, guardandomi con tanta devozione! Soprattutto gli occhi sono belli, dolci e intelligenti, anche se sporgono un po’ vitrei. L’iride è di un color bruno ruggine, lo stesso del manto; ma in effetti, a causa della forte dilatazione della pupilla dai riflessi neri, forma solo un sottile anello, il cui colore del resto sfuma e si perde nel bianco dell’occhio. L’espressione del muso, un’espressione di lealtà intelligente, rivela quel carattere maschio che si stampa nella struttura del corpo: il torace convesso, sotto la cui pelle aderente, liscia e duttile si disegnano forti le costole, i fianchi stretti, le gambe dalle venature nervose, i piedi grossi e ben fatti; tutto ciò parla di prodezza e di virtù virile, parla di sangue rustico da cacciatore, anzi proprio il cacciatore e il cane da punta prevalgono sulla formazione di Bauschan; è un vero bracco, secondo me, sebbene non debba certo la sua esistenza a un superbo atto di riproduzione fra appartenenti alla stessa razza; e questo può darsi sia il significato delle parole piuttosto confuse e illogiche che gli rivolgo, mentre gli batto sulla schiena. Sta fermo e guarda, aguzza gli orecchi, penetra l’accento che io do al mio discorso, che con l’enfasi scolpita nelle parole approva la sua esistenza.
E a un tratto, sporgendo la testa e aprendo e chiudendo in fretta le labbra, scatta verso il mio viso, quasi volesse mordermi il naso; pantomima che evidentemente vuole essere la risposta al mio discorso e che ogni volta, come Bauschan sa già in anticipo, mi fa indietreggiare di colpo ridendo. È una specie di bacio a mezz’aria, tra l’affettuoso e il burlesco, una manovra che gli è caratteristica fin dall’infanzia, mentre io non l’avevo mai notata in nessuno dei suoi predecessori. Del resto si scusa subito della libertà che si è preso, con scodinzolii, brevi inchini e un’espressione fra imbarazzata ed allegra. Poi, dal cancello del giardino, usciamo all’aperto.”
Tratto da: “Cane e padrone” di Thomas Mann
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Traduzione di Brunamaria Dal Lago Vener
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