precipitarsi su di me, come se volesse buttarmi a terra. Per lo sforzo solleva un po’ il labbro inferiore, così da scoprire due o tre dei suoi incisivi, che luccicano di un bianco candido al sole del mattino.
     Viene dalla cuccia che si trova lì dietro, sotto il piano della veranda sostenuto da pilastri, dove forse, fino al fischio a due toni che lo ha ridestato alla vita, si è fatto un breve pisolino mattutino, dopo una notte passata in mille avventure. La cuccia è fornita di tende di stoffa ruvida e il pavimento è cosparso di paglia, per cui succede che qualche fuscello resti attaccato al pelo di Bauschan, già arruffato dal sonno, oppure gli si vada a ficcare fra le unghie delle zampe: uno spettacolo che ogni volta mi ricorda il vecchio conte di Moor, come l’ho visto, durante una rappresentazione singolarmente realistica, uscire dalla Torre della Fame, con una pagliuzza tra le dita dei suoi poveri piedi calzati di maglia.
     Senza volerlo mi metto in posizione di difesa e presento il fianco all’assalto di Bauschan, perché la sua finzione di passarmi fra i piedi e di farmi cadere ha un’immancabile forza di suggestione. All’ultimo momento però, subito prima dell’urto, riesce a frenare e a deviare, cosa che dimostra il suo autocontrollo sia fisico che psichico; a questo punto, senza emettere alcun suono, perché fa un uso parsimonioso della sua voce sonora ed espressiva, comincia ad eseguire attorno a me una danza di saluto, fatta di saltelli, di scodinzolii smodati, che non si limitano alla coda, lo strumento espressivo destinato a tale scopo, ma coinvolgono tutta la parte posteriore del corpo fino alle costole; e tutto il suo essere si contrae, scatta in agili balzi di gioia e giravolte intorno al proprio asse, esibizioni tutte che lui, stranamente, cerca di sottrarre al mio sguardo, trasferendo lo spettacolo, dovunque io mi giri, dalla parte opposta. Tuttavia nell’istante in cui mi chino e tendo la mano, eccolo all’improvviso con un salto accanto a me, il corpo premuto alla mia gamba, fermo come una statua: se ne sta con le zampe robuste puntate a terra, di sbieco, il muso alzato verso di me in modo da guardarmi negli occhi da sotto in su, e la sua immobilità, mentre gli batto sulla spalla sussurrandogli qualche parola affettuosa, emana, concentrata, la stessa passione che animava la frenesia precedente.
     È un bracco tedesco a pelo raso, se non si prende troppo alla lettera questa definizione, ma la si intende con un po’ di buonsenso, perché un bracco come lo descrivono i libri di stretta osservanza, Bauschan non lo è proprio. Prima di tutto, forse è un po’ troppo piccolo, decisamente “al di sotto”, devo sottolinearlo, delle dimensioni di un cane da punta; poi anche le zampe anteriori non sono ben

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Thomas, Mann, Cane e padrone, Bauschan, Bergamo, I Senza Cuccia, Testo, Romanzo, Letteratura, Tedesca, Novecento