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ERICH MARIA REMARQUE "NIENTE DI NUOVO SUL FRONTE OCCIDENTALE"
                                               di Silvia Luzzini

     Era da tempo che avevo intenzione di leggere il romanzo “Niente di nuovo sul fronte Occidentale”, ma rimandavo sempre poiché desideravo farlo in un momento di tranquillità, per poter centellinare quelle pagine con il dovuto rispetto che si deve ad una generazione di diciottenni strappati dalle loro case e buttati a combattere in una trincea della Prima Guerra Mondiale. In agosto mi sono decisa e devo dire che è stato (o meglio è, dato che non l’ho ancora terminato) una rivelazione.
     Malgrado la crudezza della vicenda, il libro contiene pagine di grande lirismo e di delicata introspezione dei personaggi, nonché un sottile, ma straordinario filo di umanità che si dipana attraverso tutti gli episodi e si avvinghia indelebilmente alle storie dei singoli personaggi. Una penna mirabile, quella dell’autore Erich Maria Remarque, che descrive la vita di giovani uomini mandati al macello sul fronte occidentale, materializzandoli però sempre come individui più che come soldati, in tutta la fragilità e la ferocia di cui l’essere umano portato alla disperazione è capace. Nel complesso pochi gli episodi descrittivi dei massacri in trincea, forse perché Remarque in trincea vi è stato veramente ed ha quindi vissuto sulla propria pelle lo scempio di razzi e granate. Di conseguenza non indulge mai nel sensazionalismo tanto in voga ai nostri giorni, ma riesce ad offrire mirabilmente uno spaccato di ciò che il vocabolo “guerra” significa nella realtà. Un libro quindi di accorata e misurata denuncia degli orrori bellici, dove lo scrittore ripercorre in qualità di superstite scene probabilmente vissute perché il mondo sappia, nella speranza, chissà, che l’umanità possa un giorno capire e ravvedersi da tanta ottusità.
     Fra le numerose pagine che mi hanno colpito ve n’è una, che riporto integralmente in calce e che vorrei condividere con voi, sia perché questa è una rubrica destinata al mondo animale, che per la straordinaria sensibilità con cui Remarque riesce a descrivere le reazioni di soldati poco più che adolescenti davanti al ferimento dei cavalli durante un attacco, malgrado loro stessi siano nel mezzo dell’inferno e non sappiano se riusciranno ad uscirne vivi: a mio avviso una pagina di puro e tragico lirismo. Nella speranza di non turbarvi, auguro a tutti buona lettura.

* * *

     L’urlo non vuole cessare: non possono essere uomini, quelli che gridano così orribilmente. Kat dice: «Cavalli feriti». Non mi è mai accaduto di udire cavalli gridare, e quasi non ci posso credere; quella che geme laggiù è tutta la miseria del mondo, è la povera creatura martirizzata, un dolore selvaggio, atroce, che ci fa impallidire. Detering si rizza: «Assassini! Assassini! Ma ammazzateli, perdio!» Egli è agricoltore, ha confidenza con i cavalli; la cosa lo tocca da vicino. E come a farlo apposta, il fuoco ora quasi tace, sicché l’urlo delle bestie si leva più chiaro. Non si sa donde possa venire, in questo paesaggio argenteo, ora così tranquillo; è invisibile, spettrale, dappertutto, fra la terra ed il cielo, si allarga smisurato, enorme. Detering diviene furibondo ed urla: «Ma sparate, uccideteli dunque, sacr…!» «Prima devono portar via i feriti» osserva pacato Kat. Ci alziamo e andiamo a cercare dove siano queste bestie. A vederle sarà più sopportabile. Meyer ha con sé un cannocchiale. Vediamo un gruppo oscuro di portaferiti con barelle, e poi masse nere, più grosse, che si muovono. Sono quelli i cavalli feriti. Ma non tutti: molti galoppano lontano, si abbattono e poi riprendono a correre. Uno ha la pancia squarciata, le interiora pendono fuori. La povera bestia vi s’impiglia con le gambe, stramazza, si rialza. Detering imbraccia il fucile e mira. Kat lo devia, sicché il colpo va in aria.  «Sei matto?» Detering trema e getta a terra il fucile. Ci accoccoliamo per terra e ci turiamo le orecchie.  Ma l’orribile lamento, quel gemere, quel pianto, penetra dovunque, e si ode sempre.
     Tutti abbiamo imparato a sopportare qualcosa; ma qui il sudore ci imperla la fronte. Si vorrebbe alzarsi e fuggire, non importa dove, solo per non udire più quei gridi. E dire che non sono uomini, ma soltanto poveri cavalli. Dal gruppo oscuro si staccano alcune barelle. Poi alcuni colpi. Le masse nere dei cavalli esitano, si afflosciano. Finalmente! Ma non è finita ancora. Gli uomini non riescono ad avvicinarsi ai cavalli feriti che, terrorizzati, scorazzano qua e là tutto il dolore nelle gole spalancate.  Una delle figure nere mette un ginocchio a terra; si ode un colpo: un cavallo si abbatte, ancora uno. L’ultimo punta sulle gambe davanti, e si gira in tondo come una giostra; si gira in cerchio con la groppa a terra; avrà la spina dorsale fracassata. Un soldato accorre e lo abbatte: lento, umile, scivola a terra.  Ci togliamo le mani dalle orecchie. Il gridare è cessato: solo è nell’aria un lungo gemito, che va spegnendosi lentamente. E poi non v’è più nulla, altro che lo squittire dei razzi, la canzone delle granate e le stelle; e ciò sembra persino strano.  Detering se ne va, bestemmiando: «Vorrei un po’ sapere che colpa hanno loro». Di lì a poco si riavvicina a noi, e con voce vibrata, quasi solenne, afferma: «Ve lo dico io, l’infamia più grande è che si faccia fare la guerra anche alle bestie».
               Erich Maria Remarque "Niente di nuovo sul fronte occidentale"

 

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